Paese che vai usanze che trovi

Carlo Lesi

Aspetto positivo di un viaggio all’estero è quando si riesce ad entrare negli usi e costumi della popolazione locale. Ieri a tavola con Lucio e Bruna il discorso è caduto sulla moderna tecnologia sanitaria occidentale che permette alle persone di superare fasi molto critiche delle loro malattie

( infarti, ictus) allungando l’esistenza. L’aspettativa di vita in Italia è per le donne di 84 anni e di 78 anni per gli uomini. In Tanzania di circa 50 anni. In questo modo – affermavano – la morte viene sempre più allontanata nel tempo quasi non fosse un evento naturale della vita. Scriveva Tiziano Terzani nel libro “L’ ultimo giro di giostra” che nel linguaggio comune italiano si è superato il tabù della sessualità di cui ora si parla apertamente, mentre resiste quello della morte che si tenta anche di esorcizzare. Invece in Tanzania – penso in Africa – la morte fa parte della vita. Di qui il senso del limite, della finitezza che il popolo possiede. Sa di non essere onnipotente, mentre i popoli occidentali danno l’impressione di cercare l’onnipotenza dato che la tecnologia li sorregge in questa ricerca allungando talvolta vite disumane. Qui i bambini assistono alla morte dei loro parenti che avviene in casa, si abituano ai morti che vengono sepolti vicino alla capanna, sono un tutt’ uno con il villaggio. Raccontava Bruna che un giorno aveva in casa alcuni bambini che ricordavano con esattezza quanti anni prima era morto un loro genitore, un loro nonno. Imparano che la vita finisce. Da noi si muore il più delle volte in un’anonima camera di ospedale ed i bambini vengono tenuti lontano. Non gli si fanno vedere i morti. I nostri bambini non imparano che la vita ha un termine per cui diventano, anzi diventiamo adulti ed anziani il più delle volte con la sua paura, ricorrendo a gesti scaramantici più o meno simpatici o ad amuleti di ogni genere. Per i tanzaniani imparare fin da bambini che l’esistenza non è eterna ha dei riflessi pratici sulla vita quotidiana: sanno accettare quello che hanno day by day senza preoccuparsi del domani, sanno sorridere e ridere per un nonnulla o anche se non hanno nulla, non si affannano più di tanto se non riescono a fare oggi quanto avevano messo in agenda, sanno accettare i contrattempi o peggio ancora le disgrazie, sanno che non possono cambiare il mondo, sanno che non possono arrivare dappertutto: di grazia se hanno di che mangiare almeno una volta al giorno, se hanno un tetto per quanto di paglia ( ad Iringa se ne vedono molti di lamiera ) sotto cui ripararsi, se riescono a trovare un lavoro tutti i giorni. Forse è giunto il momento in cui noi occidentali abbiamo da imparare a vivere dagli africani?

Il mistero delle flip flop

Stefano Manservisi

C’è una cosa che mi incuriosisce girando la Tanzania: perché le ciabattine infradito (flip flop) che qui usa dare in dotazione alla camera sono sempre rigorosamente e marcatamente spaiare? Magari della stessa serie, ma certamente con colori disegni e taglia diversi … Esiste forse una qualche antica superstizione secondo la quale “porta bene” calzare flip flop spaiate? Per me è già abbastanza curioso il fatto che invece del classico scendiletto o della pedana coordinata alla biancheria da bagno qui diano le ciabattine … ma forse è perché in effetti in qualità di “mzungu” (bianco, straniero … non proprio in senso vezzeggiativo) sono avvezzo a lussi che qui non si possono pretendere o forse perché è più igienica la ciabattina di plastica ? O perché è più economica … non so ma la cosa mi lascia abbastanza indifferente … uso le mie e sono sereno. Ma quello che mi incuriosisce e a proposito del quale fino ad ora non sono riuscito ad avere risposte esaurienti (il massimo che ho ottenuto chiedendo è stata una alzatina di spalle e un sorrisetto) … quello che mi incuriosisce dicevo è il mistero delle flip flop spaiate … Any help?

Spazio e tempo

Stefano Manservisi

Lo scambio di messaggi che riesco a tenere con gli amici che seguono le tracce del nostro viaggio e in particolare uno scambio avuto con il mio amico Stefano, assieme alle sensazioni raccolte dai luoghi che sto attraversando, alcuni per la prima volta, mi fanno sentire a volte come in un romanzo di fantascienza dove i protagonisti viaggiano nello spazio e nel tempo, mentre il collegamento alla rete è una sorta di debole ed instabile collegamento con la base di partenza. Non preoccupatevi, non ho mangiato particolarmente pesante o bevuto smodatamente … stavo solo pensando ad alcune fugaci sensazioni come quella provata qualche giorno fa viaggiando lungo la Morogoro road, che si snoda come una striscia bianca e diritta che si adagia su e giù per le dolci colline della piana ad ovest di Dar es Salaam, sotto un celo nuvoloso e a tratti piovoso, attraversando villaggi dove donne nere in abiti coloratissimi offrivano le loro mercanzie su banchetti improvvisati … la colonna sonora di questo viaggio a ritroso nel tempo era composta da Reain and Tears cantata in inglese da Denis Russos, “ … rain and tears are the same … “ seguita da una quanto mai appropriata Black is Black … (più appropriato di così !) … solo che mi pareva di essere negli anni ’70 … L’Africa riserva anche queste sorprese …

Yeah!
(Come direbbe un mio amico tafano)

Shikamoo

Stefano Manservisi

Esiste un saluto in Tanzania, o comunque in queste parti dell’Africa nera, che chi è passato di qui non può dimenticare: è il saluto dei bambini verso gli adulti, o vesro le persone anziane o comunque più importanti. I bambini salutano dicendo “shikamoo” e gli adulti rispondono “marahaba” e si inchinano (gli adulti) per farsi imporre le mani sulla testa dai più piccoli.

In un paese dove l’aspettativa di vita si ferma a 50 anni o poco più gli anziani godono un credito di saggezza che io vedo mirabilmente sintetizzato in questo saluto, dove il bambino posa le mani sulla testa dell’adulto quasi per attingerne il sapere, ma è l’adulto che deve inchinarsi davanti alla novità … Purtroppo credo che certi anziani europei … italiani non potrebbero capire … forse perché da noi l’aspettativa di vita è molto più elevata.

Consolata Fathers in Morogoro … 19 ottobre

Stefano Manservisi

Valige pronte, colazione alle 8 e partenza. Alla reception del Willolesi (bellavista +o- in diletto kiehe) Hilltop Hotel troviamo Padre Luciano che sarà il nostro autista per il viaggio fino a Dar, accompagnato per un saluto Da Peter e Isàia. Decisamente mi dispiace un poco lasciare queste montagne, soprattutto pensando al clima che ci aspetta a Dar es Salaam.

Alle 9 partiamo alla volta di Morogoro. Con la guida veloce di Luciano arriviamo al Glonency alle 14:30 dopo avere ripercorso a ritroso l’altopiano di Iringa, ridisceso le rampe di Kitonga, essere passati per la confluenza del Lukosi con il Ruaha ed avere fatto una breve sosta al lodge del Baobab Valley Camp Site, per poi ridiscendere a Mikumi e riattraversare il parco e proseguire fino a Morogoro.

Qui ci fermiamo per il pranzo e per incontrare il Vescovo di Iringa che è di ritorno da Dar.

Intanto che aspettiamo monsignore arriva al Glonency anche Padre Paolino, un confratello della Consolata che è in Africa da 50 anni e che si sta occupando della realizzazione del nuovo seminario minore. Ovviamente organizziamo la cena all’Austrian Kichen (un ristorante/pub dentro al campus universitario di Morogoro) assieme agli altri padri della consolata, Erasto (il nuovo rettore), Dido (il rettore precedente, che fu anche parroco a Madege) e Nahashon.

Dopo poco arriva anche mons. Tarcisius che si siede con noi impaziente di conoscere l’esito dell’incontro di ieri. Assieme a Luciano facciamo una breve sintesi dei temi affrontati e delle decisioni prese, dopodichè ci saluta dandoci appuntamento a bologna la prossima settimana. Anche questo fugace incontro a metà strada tra Iringa e Dar mi conferma la sensazione che ci troviamo proprio davanti ad un uovo inizio per il nostro progetto idroelettrico. Ci sarà da lavorare molto!!!

La cena all’Austrian Kitchen trascorre allegra tra gli aneddoti di fratel Paolino e Mario , che si conoscono da tanto e i vivaci scambi di opinioni assieme a Luciano ed Erasto (che si conoscono fino dai tempi del seminario a Mafinga) a proposito della situazione politica in Italia ed in Tanzania.

Mario simba … testa fatica !

Stefano Manservisi

Dei due autisti che ci accompagnano in questo viaggio uno, Elia, è ormai esperto, ha fatto molte volte il viaggio da Maguta a Dar e vice versa e si sente investito del ruolo; l’altro, Basili è forse più giovane e certamente meno esperto, non molto abituato al traffico cittadino, più avvezzo a cavarsi d’impiccio tra buche e pantani delle sue strade sterrate di montagna che in un incrocio asfaltato di città per di più di notte. Figuriamoci poi se sta trasportando il presidente della associazione che gli da da lavorare.

Quando però dopo avere esitato più volte in sorpassi di vecchi rottami puzzolenti ed avere indugiato per chilometri dietro a ciminiere intossicanti quasi a passo d’uomo, di notte imbocca una rotonda alla rovescia non può evitare la sfriata di Mario che giustamente lo riprende. Al culmine dell’imbarazzo il nostro amico percorre la salita di pochi chilometri verso Iringa in un tempo biblico quasi sospinto più che dal motore del Toyota dai clacson degli esasperati automobilisti che lo seguono.

Arrivati a destinazione, mentre stavamo discutendo sulla opportunità di far fare ancora altra pretica ai ragazzi, Elia si avvicina per sostenere e giustificare il suo compagno con queste parole: “Quando Mario, simba, Basili testa, fatica! Lui paura di non lavorare più!”

La semplicità la generosità di queste parole riporta il buon umore. Alla fine nessuno a corso rischi reali e probabilmente Basili dovrà fare ancora pratica, magari proprio assieme al suo amico Elia. Penso anche che noi dobbiamo fare esercizio di sensibilità verso questi nostri amici.

L’Africa che ci aspettiamo e l’Africa che ci aspetta

Stefano Manservisi

Dopo il primo momento di insofferenza, passato quando rientrando al Pope John Paul II Hostel di Dar es Salaam (il Kurasini per intenderci) scopriamo che nessuno si è preoccupato di riparare un guasto elettrico e che le camere del primo piano (solo di quelle) e quindi anche le nostre, sono al buio per l’ennesima volta; e dopo avere constatato il completo disinteresse da parte della direzione che anzi si è dimostrata piuttosto seccata alle nostre rimostranze, scaricando la responsabilità sui problemi cronici, quanto inesistenti in quel momento dato che il resto del complesso era tutto illuminato, di approvvigionamento elettrco; penso sulla fauna umana che circola da queste parti.

In particolare, durante i nostri brevi soggiorni al Kurasini di Dar, sono rimasto colpito da coloro che venendo cui quasi sembrano proprio cercare gli inconvenienti dovuti alla mancanza di acqua e di corrente, quasi fossero aspetti folkloristici locali, come che servissero per rassicurarli che si, l’Africa che si aspettano di trovare è ancora li, immutabile, sempre desiderosa del loro operoso intervento, della loro indispensabile generosità. Così vanno allegrmente e scherzosamente in camera con la loro torcetta a dinamo.

Io però non capisco cosa ci sia di divertente nel dover stare in una camera al buio! Soprattutto se tutti, sopra e sotto di tè hanno la luce, cosa ci sarà mai di divertente se dopo una giornata nell’afa soffocante di Dar non puoi farti una doccia e sei costretto a riparati sotto la zanzariera per non farti mangiare dalle zanzare! L’Africa che ci aspetta sta cambiando molto velocemente e non sempre è l’Africa che ci aspettiamo.