Il saluto

Carlo Lesi

Ai lati della strada si muove un brulichio di persone: bambini/e in divisa ( camicetta bianca; gonna o calzoncini bleu) che vanno a scuola, ragazzi o uomini in bicicletta con carichi pesanti talvolta su ripide salite sotto un sole cocente, donne che portano sulla testa in perfetto equilibrio un sacco di farina o un secchio d’acqua – imparano fin da piccoli, ragazzi/e che vendono in modo festoso le loro mercanzie ( pomodori, polli, carbone), uomini e donne con la zappa sulla spalla che vanno o tornano dal campo, ragazzi nullafacenti che siedono con fierezza sulle loro fiammanti motociclette, alcuni senza un’apparente attività. Si incontrano ed anche se non si conoscono hanno un tratto comune: si salutano sempre, sorridendo. Si incontrano dieci volte nella giornata, si salutano sorridendo dieci volte! Se poi non hanno fretta o è la prima volta nella giornata che si incontrano si stringono la mano.. Si salutano anche a lungo o addirittura per tutto il tempo della conversazione che può durare anche molti minuti. Lo swahili è una lingua che usa molte parole per esprimere un concetto. E’ più analitica che sintetica. In alcune zone del paese, specie nel sud, le strette di mano sono accompagnate da un gesto di rispetto che consiste nel toccarsi il gomito destro con la mano sinistra e da un inchino o da un suo accenno. Il saluto è accompagnato da uno scambio di parole: cominciano dandosi il benvenuto: karibu ! che può diventare karibu sana ( benvenuto molto) quando vogliono attribuire enfasi al saluto soprattutto nei confronti di uno straniero. Sembra che in quel momento si sentano responsabili di salutare la persona che hanno di fronte a nome della popolazione intera. A saluto risposta: ahsante ( grazie) che può amplificarsi in ahsante sana ( grazie molto) a seconda del calore umano che si è creato. Raccontava un amico che, da più di venti anni viene in Tanzania, che un giorno chiese per strada ad una persona un’informazione senza salutarlo. Quella persona si offese tanto che non gliela voleva dare. “ Chi sei? “ gli domandò perché non lo conosceva. Poi prevalse la gentilezza innata dei tanzaniani e lo accompagnò addirittura sul posto. Tali attenzioni nei confronti della persona con cui si parla si manifestano anche a tavola, per cui non è sconveniente mangiare o passare alimenti con la mano sinistra: potrebbe sembrare scarso apprezzamento per il cibo che l’ospite offre. Se ci si reca invitati a casa da un amico tanzaniano, prima di entrare è doveroso dire: hodi? ( posso?) in attesa di ricevere l’immancabile karibu. Nel caso poi vengano fatti regali è tradizione accettarli con entrambe le mani o con la mano destra mentre con la sinistra ci si tocca il gomito sinistro. A qualcuno tali atteggiamenti possono sembrare stucchevoli convenevoli, espressione di un galateo di altri tempi. Al sottoscritto invece appaiono un comportamento rispettoso di un popolo nei confronti del prossimo che affonda le radici nella sua storia. Va accolto e rispettato.

Paese che vai usanze che trovi

Carlo Lesi

Aspetto positivo di un viaggio all’estero è quando si riesce ad entrare negli usi e costumi della popolazione locale. Ieri a tavola con Lucio e Bruna il discorso è caduto sulla moderna tecnologia sanitaria occidentale che permette alle persone di superare fasi molto critiche delle loro malattie

( infarti, ictus) allungando l’esistenza. L’aspettativa di vita in Italia è per le donne di 84 anni e di 78 anni per gli uomini. In Tanzania di circa 50 anni. In questo modo – affermavano – la morte viene sempre più allontanata nel tempo quasi non fosse un evento naturale della vita. Scriveva Tiziano Terzani nel libro “L’ ultimo giro di giostra” che nel linguaggio comune italiano si è superato il tabù della sessualità di cui ora si parla apertamente, mentre resiste quello della morte che si tenta anche di esorcizzare. Invece in Tanzania – penso in Africa – la morte fa parte della vita. Di qui il senso del limite, della finitezza che il popolo possiede. Sa di non essere onnipotente, mentre i popoli occidentali danno l’impressione di cercare l’onnipotenza dato che la tecnologia li sorregge in questa ricerca allungando talvolta vite disumane. Qui i bambini assistono alla morte dei loro parenti che avviene in casa, si abituano ai morti che vengono sepolti vicino alla capanna, sono un tutt’ uno con il villaggio. Raccontava Bruna che un giorno aveva in casa alcuni bambini che ricordavano con esattezza quanti anni prima era morto un loro genitore, un loro nonno. Imparano che la vita finisce. Da noi si muore il più delle volte in un’anonima camera di ospedale ed i bambini vengono tenuti lontano. Non gli si fanno vedere i morti. I nostri bambini non imparano che la vita ha un termine per cui diventano, anzi diventiamo adulti ed anziani il più delle volte con la sua paura, ricorrendo a gesti scaramantici più o meno simpatici o ad amuleti di ogni genere. Per i tanzaniani imparare fin da bambini che l’esistenza non è eterna ha dei riflessi pratici sulla vita quotidiana: sanno accettare quello che hanno day by day senza preoccuparsi del domani, sanno sorridere e ridere per un nonnulla o anche se non hanno nulla, non si affannano più di tanto se non riescono a fare oggi quanto avevano messo in agenda, sanno accettare i contrattempi o peggio ancora le disgrazie, sanno che non possono cambiare il mondo, sanno che non possono arrivare dappertutto: di grazia se hanno di che mangiare almeno una volta al giorno, se hanno un tetto per quanto di paglia ( ad Iringa se ne vedono molti di lamiera ) sotto cui ripararsi, se riescono a trovare un lavoro tutti i giorni. Forse è giunto il momento in cui noi occidentali abbiamo da imparare a vivere dagli africani?

Il mistero delle flip flop

Stefano Manservisi

C’è una cosa che mi incuriosisce girando la Tanzania: perché le ciabattine infradito (flip flop) che qui usa dare in dotazione alla camera sono sempre rigorosamente e marcatamente spaiare? Magari della stessa serie, ma certamente con colori disegni e taglia diversi … Esiste forse una qualche antica superstizione secondo la quale “porta bene” calzare flip flop spaiate? Per me è già abbastanza curioso il fatto che invece del classico scendiletto o della pedana coordinata alla biancheria da bagno qui diano le ciabattine … ma forse è perché in effetti in qualità di “mzungu” (bianco, straniero … non proprio in senso vezzeggiativo) sono avvezzo a lussi che qui non si possono pretendere o forse perché è più igienica la ciabattina di plastica ? O perché è più economica … non so ma la cosa mi lascia abbastanza indifferente … uso le mie e sono sereno. Ma quello che mi incuriosisce e a proposito del quale fino ad ora non sono riuscito ad avere risposte esaurienti (il massimo che ho ottenuto chiedendo è stata una alzatina di spalle e un sorrisetto) … quello che mi incuriosisce dicevo è il mistero delle flip flop spaiate … Any help?

Consolata Fathers in Morogoro … 19 ottobre

Stefano Manservisi

Valige pronte, colazione alle 8 e partenza. Alla reception del Willolesi (bellavista +o- in diletto kiehe) Hilltop Hotel troviamo Padre Luciano che sarà il nostro autista per il viaggio fino a Dar, accompagnato per un saluto Da Peter e Isàia. Decisamente mi dispiace un poco lasciare queste montagne, soprattutto pensando al clima che ci aspetta a Dar es Salaam.

Alle 9 partiamo alla volta di Morogoro. Con la guida veloce di Luciano arriviamo al Glonency alle 14:30 dopo avere ripercorso a ritroso l’altopiano di Iringa, ridisceso le rampe di Kitonga, essere passati per la confluenza del Lukosi con il Ruaha ed avere fatto una breve sosta al lodge del Baobab Valley Camp Site, per poi ridiscendere a Mikumi e riattraversare il parco e proseguire fino a Morogoro.

Qui ci fermiamo per il pranzo e per incontrare il Vescovo di Iringa che è di ritorno da Dar.

Intanto che aspettiamo monsignore arriva al Glonency anche Padre Paolino, un confratello della Consolata che è in Africa da 50 anni e che si sta occupando della realizzazione del nuovo seminario minore. Ovviamente organizziamo la cena all’Austrian Kichen (un ristorante/pub dentro al campus universitario di Morogoro) assieme agli altri padri della consolata, Erasto (il nuovo rettore), Dido (il rettore precedente, che fu anche parroco a Madege) e Nahashon.

Dopo poco arriva anche mons. Tarcisius che si siede con noi impaziente di conoscere l’esito dell’incontro di ieri. Assieme a Luciano facciamo una breve sintesi dei temi affrontati e delle decisioni prese, dopodichè ci saluta dandoci appuntamento a bologna la prossima settimana. Anche questo fugace incontro a metà strada tra Iringa e Dar mi conferma la sensazione che ci troviamo proprio davanti ad un uovo inizio per il nostro progetto idroelettrico. Ci sarà da lavorare molto!!!

La cena all’Austrian Kitchen trascorre allegra tra gli aneddoti di fratel Paolino e Mario , che si conoscono da tanto e i vivaci scambi di opinioni assieme a Luciano ed Erasto (che si conoscono fino dai tempi del seminario a Mafinga) a proposito della situazione politica in Italia ed in Tanzania.

Ruaha National Park … 17 ottobre

Stefano Manservisi

Un’altra levataccia (alle 4:45) me se non altro questa volta non è per andare a prendere un aereo ma per andare al Ruaha National Park.

Dopo tanto galoppare (in 6 giorni abbiamo girato 4 angoli della Tanzania: Dar, Mwanza, Tabora e Iringa) alla fine siamo riusciti a ritagliarci una giornata quasi intera per noi.

Viaggiando in Tanzania, non è che ci si debba aspettare di affrontare pericoli o incognite avventurose, finche tutto va per il verso giusto “apana problem” nessun problema, però non bisogna ma dimenticare che non siamo a casa nostra e che se capita qualche inconveniente non sempre le cose si possono risolvere con una telefonata. Quindi in questi nostri viaggi intensi e pieni di appuntamenti e incontri è necessario avere un certo margine di tempo e sapere che i programmi si fanno per rifarli. Così ormai esauriti la maggior parte degli impegni ed essendo tutto andato sinora per il meglio possiamo attingere un poco di tempo da quei margini che mi ero tenuto.

Alle 8 siamo ad Iringa e dopo avere fatto il pieno in una delle nostre usuali stazioni di rifornimento entriamo in vescovado per incontrare Luciano e Peter che ci accompagneranno al Ruaha National Park., mentre Mario con i nostri due autisti e il Toyota più vecchio, resteranno a Iringa per sbrigare alcune questioni e passare in officina. Mario è già stato più volte al Ruaha e certamente si diverte di più a girare per Iringa dove credo che ormai tutti lo conoscano.

Dopo una breve colazione offertaci nella sala da prenzo, sempre pronta e imbandita per ogni evenienza a qualsiasi ora, Luciano mi dice che non potrà accompagniarci perchè deve restare in sede per preparare assieme agli altri invitati all’incontro di domattina l’agenda di lavoro (!).

Questa mattina avrò anche l’occasione finamente di guidare io il Toyota per le strade di Iringa perchè Peter, prima di accompagnarci, deve portare una macchina della Diocesi al RUCO (Ruaha University College), in pratica l’Università Cattolica di Iringa, un’altra istituzione voluta e sostenuta dalla diocesi locale che ha grande sensibilità e molte attività nel campo dell’istruzione e della formazione.

Lasciamo Iringa verso le 10 e finalmente ci dirigiamo verso il parco. Lasciati i sobborghi ad ovest della citta, dove nuovi quartieri si stanno sviluppando senza una chiara ed efficace pianificazione e in evidente carenza delle infrastrutture minime di urbanizzazione (niente rete fognaria, solo l’indicazione dell’obbligo di dotarsi di fossa biologica, senza poi preoccuprsi di dove e come queste scarichino a loro volta, niente strade, distribuzione elettrica caotica e acquedotto insufficiente) imbocchiamo la strada che porta al bivio per la missione di Tosamaganga dove si trova anche il St. John of the Cross Hosptal. L’asfalto finisce al bivio per Tosamaganga, di qui saranno altri circa 120 km di strada bianca fino all’ingresso del parco. Subito dopo la fine dell’asfalto e fino a che si incontrano abitati e abitanti incrociamo una sequenza di chiesette bianche, Peter ci dice che sono chiese Ortodosse, realizzate non molti anni fa con fondi provenienti dalla Grecia ma che non sembrano avere riscosso particolare seguito.

Padre Peter ci spiega come interventi di questo tipo non sono rari in Tanzania e ci porta l’esempio della serie di piccole moschee, tutte simili e costruite qualche anno prima con fondi arabi. Peter ci spiega che si tratta, secondo il suo punto di vista,di interventi di puro proselitismo, infatti si tratta sempre di interventi realizzati lungo le strade principali, dove è più facile essere visti de è più economico costruire e meno impegnativo gestire, ma anche dove in realtà c’è meno necessità, in quanto insediati dove già ci sono attività e commercio, all’interno lontani dalle direttrici principali è più faticoso difficoltoso intervenire; ci dice anche che spesso poi se persone o familie in difficolttà si rivolgono a queste strutture, la possibilità di ottenere qualche aiuto è legata al rinnegare la propria fede per abbracciare le loro.

Una volta superati gli ultimi villaggi, la discesa dall’altopiano di Iringa alla piana del Ruaha dura decine di chilometri e percorrendo la strada sterrata che taglia una infinita foresta secca e disabitata è priva di orizzonte, sembra una infinita discesa verso il mare indefinitamente lontano.

Arriviamo al gate di ingresso al parco: Mzngu 20$ local 1$ … mi pare una buona idea chissà se è esportabile.

Comunque appena entrati, proprio al ponte per attraversare il fiume Ruaha, il primo spettacolo: ippopotami, coccodrilli e aironi … bellissimo! Dopo la prima raffica di fotografie proseguiamo fino al Park HQ dove carichiamo (per 16000 Tsh) la nostra guida alla quale chiediamo subito se si riescono a vedere i leoni. Purtroppo l’orario non ci è propizio ma ci assicura che farà il possibile. Mentre siamo alla ricerca dei leoni incontriamo una piccola mandria di zebre con anche i piccoli, poi gazzelle, impala, gnu, bufali, babbuini e altre scimmie, pernici, struzzi, uccellini dai colori vavaci impossibili da fotografare al volo, e uccellini dal becco rosso tipici del Ruaha …e alla fine quando ormai stavamo per rinunciare a cercarli … ecco i leoni. Non molto vicini … anzi piuttosto lontanucci, sulla riva opposta di un fiume secco , ma comunque abbastanza vicini da essere distinguibili e fotografabili, e subito dopo … la pattuglia della jungla, che per chi si ricorda “il libro della jungla” è composta da elefanti in buon ordine che marciano in fila indiana sotto la guida del loro capo. Il parco del Ruaha in questa stagione è secco, ma pur sempre pinteggiato da una incrdibile quantità di differenti alberi verdi che spiccano in mezzo ad un mare di alberi secchi ed arbusti.

Sono ormai passate le quattro e quando la guida ci chiede se vogliamo continuare la ricerca dei leoni dietro la montagna, a malinquore dobbiamo declinare, perchè è già ora di rintrare. Uscendo dal parco imbocchiamo un itinerario parallelo ma che ci dice Peter essere più breve di quello fatto all’andata anche se leggermente più disagevole.

Rientriamo nelle camere, dopo avere lasciato Peter in vescovado, alle 16:30, giusto il tempo di farsi una doccia per toglersi di dosso la polvere dei chilometri percorsi e i nostri amici, Peter, Luciano e Isàia vengono a prederci per portarci a cena in un bel ristorantino indiano di cui ignoravamo l’esistenza.

Dopo cena e dopo esserci accordati per l’incontro di domattina rientrimo in camera. Mi bruciano gli occhi per la luce, la polvere, il sonno, ma è stata veramente una bella giornata.

Casa Monari … 16 ottobre

Stefano Manservisi

La notte a Casa Monari qui a Maguta (o Manguta come sostiene Salvadòr) è passata tranquilla e riposante, punteggiata soltanto da qualche scroscio di pioggia. Alle 8 facciamo colazione poi partiamo per fare un giro al cantiere della centrale prendendo la strada che sale all’abitato di Madege per poi ridiscendere fino al ponte nei pressi del villaggio di Lukosi e che passando a fianco delle scuole secondarie, prosegue svoltando a destra fino allo spiazzo dove sono stati montati un prefabbricato per uffici un capannone metallico dove sono depositati i materiali per la realizzazione del fabbricato della centrale e che assieme a due container di materiali costituiscono il cantiere a valle dell’impianto.

Qui troviamo già assemblata la enorme biforcazione a Y che suddividerà il flusso di acqua proveniente dal salto per alimentare le due turbine previste alla fine della seconda fase del progetto (per ora la prima fase prevede la realizzazione di una sola “linea d’asse” turbina – alternatore).

L’emozione per tutto quello che abbiamo visto nei giorni scorsi e qui su queste montagne, che ormai sentiamo un poco nostre, è intensa e il presidente assieme a noi si lascia trasportare da un momento di commozione, pensando a coloro che hanno sognato e voluto questo progetto e che non hanno potuto essere qui per vederne i progressi in questi ultimi 5 anni.

Con la pioggia di questa notte non è consigliabile rientrare per la ripida strada diretta che Marco & soci hanno realizzato per mettere in comunicazione il cantiere superiore con quello a valle.

Assieme a Carlo ripercorriamo a piedi un breve tratto la strada che abbiamo fatto prima fino ad arrivare in un punto dal quale si può avere un vista completa del “salto” e di tutto il cantiere a valle, poi risaliamo sul Toyota per rientrare facendoci lasciare qualche curva prima dell’ingresso di Casa Monari per immergerci almeno per qualche minuto in questo paesaggio stupendo.

Rientrando discutiamo su alcuni aspetti dell’incontro avuto giovedì scorso a Dar con il Vescovo e in vista dell’incontro di Martedì ad Iringa con le altre persone coinvolte dal Vescovo nella gestione dell’impianto di Madege.

La discussione continua animata anche durante e dopo il pranzo, i punti da chiarire e da definire, anche relativamente alla nostra posizione oltre che relativamente ai rapporti bilaterali sono molti e anche delicati, ma ormai inderogabili visto che il momento del passaggio dalla fase realizzativa a quella gestionale si sta avvicinando sempre di più man mano che i lavori procedono.

Dopo una breve pausa, verso sera riprendiamo la programmazione delle prossime due giornate per le quali avendo fatto e disfatto il calendario almeno due volte alla fine siamo riusciti a ritagliarci una veloce escursione al parco del Ruaha. Anche perchè martedì sarà un’altra giornata piena di impegni.

La domenica andando alla messa

Carlo Lesi

Oggi domenica giorno di riposo. Siamo stati stamattina nei dintorni di Maguta per vedere lo stato di avanzamento dei lavori laddove la condotta forzata compie il balzo finale prima di arrivare a valle per incontrare la turbina che trasforma l’energia idrica in quella elettrica. Lavoro immane compiuto a regola d’arte..

Maguta, dove ha sede Casa Monari ed il cantiere, è una frazione di Madege: è circondata di colline verdeggianti in parte coltivate con cura in parte coperte di boschi. A volte i boschi sono così fitti e gli alberi così alti che pare di essere nella foresta amazzonica. Ovvio che occorre un pizzico di sana fantasia da parte di chi scrive. Di certo è una zona piovosa. Un paesaggio riposante e surreale anche per la presenza di capanne di fango e paglia che ancora si intravvedono ed i bambini scalzi, coperti di polvere e di stracci che si incontrano. In cambio sorridono e ricambiano il saluto educatamente con la mano. Occhi vivaci e sorriso a tutto tondo. Nessun moralismo, ma ogni tanto fa bene ripensarci per provare a dare il giusto valore ai fatti della nostra vita quotidiana “occidentale”. Per immergerci meglio in questa realtà con Stefano abbiamo camminato a piedi sulle strade fangose. Stanotte è piovuto. Oggi cielo plumbeo con apertura pomeridiana al sereno. Nel nostro giro abbiamo incontrato frotte di donne e bambini; pochi gli uomini. Non è facile dare l’età alle donne: sembrano tutte anziane con visi rugosi e lineamenti del volto scolpiti testimonianza della vita faticosa e di stenti che conducono. Vi contribuiscono anche le numerose gravidanze. Mi hanno riferito anche di maltrattamenti da parte degli uomini ubriachi Non sono mai entrato nelle loro case ma a chi è stato loro concesso racconta di interni miseri composti da stuoie per dormire, cavalletti di legno per appoggiare i vestiti, un po’ di legna al centro per accendere il fuoco. Wc open space. A chi scrive piacerebbe conoscere lo swaili ed avere la possibilità di parlare con loro per conoscerne usi e costumi. Anche entrare nelle loro case. Non per curiosità ma per capire. Ritengo che anche queste persone abbiano insegnamenti e saggezza di vita da offrirci. Esempio apparentemente banale sono i vestiti delle donne incontrate oggi: di colori sgargianti, a tinte forti con giochi, disegni ed intrecci di diversi colori che colpiscono a prima vista. Ravvivano l’animo di chi li incrocia. In questo modo manifestano una dignità umana che contrasta con le fatiche che sopportano ogni giorno. Dove stavano andando? A Messa. Con i loro vestiti allegri forse volevano sottolineare l’importanza dell’evento. Questo non è già un insegnamento di vita per noi?

La strada maestra di vita

Carlo Lesi

Prima di salire a Maguta ci siamo fermati ad Iringa nelle vicinanze del mercato. Mentre aspettavamo che aprisse l’emporio per la spesa si sono avvicinati due ragazzi che hanno salutato Mario che conoscono da anni. Mario ad Iringa è di casa sia per gli acquisti che compie sia per la manutenzione che compie a favore dei fuoristrada della ONG. Il suo carattere aperto lo porta a diventare con facilità rafiki ( amico in swaili) di molti. Edmund e Julius ci hanno salutato con il tipico calore del popolo tanzaniano. Sorrisi, strette di mano, l’immancabile karibu ( benvenuto) battute che si concludono sempre con una risata. E’ un popolo che possiede ancora il senso ed il sapore della risata. Con occhi vivaci e sorriso smagliante hanno pian piano tolto dalle borse, che portavano a tracolla, alcuni oggetti che hanno posto per terra: piccoli animali e sopramobili in legno, stuoie di varia grandezza, disponibili i due ragazzi a sconti favolosi!!?. Un negozio inventato lì per lì sul marciapiede all’aria aperta: open space diremmo noi per darci un tono. Non ci vuole molto: oggetti da proporre, un abile venditore, un acquirente accalappiato ed il gioco è fatto. Inizia la contrattazione. Si da il caso che l’acquirente non fosse interessato all’acquisto per cui il colloquio è divagato su altri argomenti favorito dalla buona conoscenza dell’inglese di uno dei due. Inglese imparato on the road a contatto con i turisti che passano da Iringa fra giugno e settembre. Alla faccia di tutte le scuole costose in cui si insegna inglese! Hanno subito soggiunto che ci sono anche molti volontari ma non hanno soldi per cui comperano poco o nulla. I nostri amici però si ingegnano con altre fonti di guadagno per mangiare e vivere loro e la famiglia che hanno sulle spalle. Sono entrambi padri uno di una bimba di un anno e l’altro di due bimbi di quattro e due anni: una sola è la moglie. I bambini devono crescere robusti hanno replicato alle domande del mancato acquirente. Il ragazzo che sapeva l’inglese si è lanciato a raccontare di vendere la sua mercanzia anche in un negozio che possiede fuori città aggiungendo che per arrotondare gli affari lavora la terra, come anche il suo amico altrettanto furbo ma penalizzato dal masticare poco l’inglese. Visto che l’acquirente tergiversava gli hanno detto chiaro e tondo – sempre con un ironico sorriso sulle labbra – che se non acquistava nulla non avevano soldi per nutrire i figli che così si sarebbero ammalati. Poiché il possibile compratore ha un cuore ha dato loro appuntamento on the road la prossima settimana quando ripasserà da Iringa. Non sono necessarie agende per vederlo. Il filo sottile della domanda e dell’offerta porterà ad incontrarli. Ed il futuro acquirente mentre saliva sul Toyota che lo avrebbe portato a Maguta ha pensato che è la strada ad essere maestra di vita e non la storia come ci è stato insegnato sui banchi di scuola.

La Condotta … 15 ottobre, sabato

Stefano Manservisi

Dopo pranzo sistemiamo le nostre cose nelle camere e con Carlo tentiamo di risolvere i suoi problemi di connessione che lo hanno isolato dal mondo impedendogli di accedere a Internet. Alla fine riusciamo a risolvere in qualche modo (piuttosto empiricamente), mentre l’ineffabile Mario è già pronto sul Toyota per accompagnarci a vedere l’opera: la condotta forzata.

Scendiamo verso la diga e risaliamo fino alla passerella che la attraversa in tutta la lunghezza. Da qui si può avere una visione di insieme della di tutto il lavoro fatto: a valle dal vano che contiene la valvola a farfalla (in sostanza il “rubinetto” a monte della condotta) scende come un lungo serpentone, la condotta forzata che, adagiata sul ciglio destro (scendendo) della strada di servizio percorre i lieve discesa i primi 900 m di percorso fino ad immettersi nel tratto in caduta quasi verticale fino alla centrale elettrica. A monte si può (per ora) solo immaginare l’invaso che nascerà una volta che, chiusi gli scarichi di fondo della diga, l’acqua avrà allagato l’ansa del Lukosi fino a che il livello non avrà raggiunto la soglia tracimante dello sbarramento che permetterà, una volta riempito il bacino di mantenere invariato il percorso e la portata del Lukosi mantenendo inalterato il suggestivo aspetto delle cascate del Lukosi e delle successive placide anse a valle dello sbarramento. Devo dire che vedere dall’alto quell’enorme serpentone metallico dà grande soddisfazione e suscita una fortissima emozione ed ammirazione per coloro (provenienti dall’Italia o da queste montagne) che l’hanno pensata e realizzata. Ovviamente il pensiero corre anche alla visionaria lungimiranza del Prof. Monari che in un periodo nel qual non era certamente immaginabile l’attuale sviluppo della questione energetica sia locale che mondiale, seppe anticipare a dispetto di tanti pragmatismi limitati l’attuale possibilità di realizzare una opera che può realmente incidere sullo sviluppo locale di queste popolose montagne e che ora può avere anche reali opportunità di auto sostenersi economicamente allontanando lo spettro di avere realizzato una cattedrale nel deserto o comunque uno strumento che una volta lasciato ai suoi legittimi destinatari venga poi abbandonato per mancanza di risorse. Percorriamo quindi tutta la strada di servizio fino all’imponente giunto a “T” da cui parte il salto della condotta verso le turbine in basso e verso il pozzo piezometrico in altro e che si perde sopra la scarpata e si inoltra nella boscaglia sovrastante.

Rientriamo e telefoniamo subito agli artefici di questo miracolo: Marco, Mario, Giuseppe Annamaria e i saldatori che hanno veramente messo a segno un grande colpo per il nostro spirito rinfrancato nel vedere pressoché realizzata una delle parti più difficili ed incognite del nostro progetto.

Certo ci sono ancora molte cose da fare e non meno impegnative come la parte inferiore del salto verso la centrale e la realizzazione del basamento delle turbine e della centrale stessa e degli scarichi che ricondurranno al tranquillo corso del Lukosi le acque che hanno fatto girare le turbine per produrre energia elettrica per questi villaggi.

Cena con pastina nel brodo di verdura e qualche scatoletta. Poi ci dedichiamo ciascuno al proprio diario o al riordino delle proprie cose. Domattina colazione alle 8 e visita al cantiere inferiore.

Casa Monari … 15 ottobre

Stefano Manservisi

Incontriamo P. Wissa che stava uscendo piuttosto stupito di vederci li alle 9 del mattino quando lui pensava che dovessimo essere ancor a Morogoro.

L’accoglienza qui è sempre fraterna e sincera, è bello incontrare gli amici da queste parti, l’entusiasmo è sempre contagioso.

Scambiamo due chiacchiere di benvenuto e di veloce aggiornamento sull’incontro di Mercoledì con mons. Tarcisius e su quello che dovrà seguire martedì prossimo. Prima di salutarci proponiamo di spendere la mezza giornata recuperata in una escursione al parco del Ruaha nella giornata di lunedì. Ci aggiorneremo domani pomeriggio una volta che sia arrivato a Iringa anche P. Luciano.

Prima di salire a Maguta passiamo per il mercato di Iringa a recuperare Mario che sta facendo un poco di spesa per il breve soggiorno a Casa Monari a Maguta.

Lasciamo Iringa e iniziamo a salire sulle nostre montagne passando dall’abitato di Ipoigoro, poi Kilolo (sede della provincia) per poi passare da Kidabaga dove arriviamo nel pieno del variopinto mercato settimanale, pieno di gente e colori. Infine, dopo avere “scollinato” un paio di volte , arriviamo a Madege il capoluogo all’interno del cui territorio si estende il nostro impianto idroelettrico sul fiume Lukosi in località Manguta.

Arriviamo a Casa Monari giusto in tempo per il pranzo.

Come sempre arrivare qui è un po come arrivare a casa e come sempre, l’accoglienza delle ragazze Innocenthia e Tafrigia, dei meccanici, dei capi squadra e di William il capocantiere è degna di fratelli rientrati dopo un lungo viaggio.

Il tempo di sistemare i bagagli nelle camere che è già ora di pranzo. Taffy e Innocenthia hanno preparato degli ottimi maccheroni con un ottimo sugo all’amatriciana.