30 anni di Solidarietà e Cooperazione Senza Frontiere

Carissimi amici, non ci è sfuggita la data! Ma le cose da fare e coordinare sono tante che con tutta la nostra buona volontà non siamo riusciti a organizzarci prima.

Il 17 luglio del 1982 nasceva Solidarietà e Cooperazione Senza Frontiere, “organismo volto ad opere di promozione umana nei paesi in via di sviluppo”, come lo ha voluto battezzare il motore principale del gruppo di amici che lo costituì trent’anni fa: il professor Edgardo Monari.

Di seguito riportiamo il pensiero del nostro attuale presidente in occasione della prossima vicina assemblea ordinaria dei soci poi vi informeremo della altre iniziative che sono in preparazione per ricordare la nostra storia trentennale ed aggiornarvi sull’avanzamento dei nostri progetti.

30 anni di Solidarietà

Di Gianfranco Manservisi

Bologna 24.09, giornata nella quale si ricorda la Beata Vergine della Mercede patrona dell’Ordine fondato in Spagna, in Aragona per la liberazione degli schiavi e dei rifugiati tanti anni fa. Sembra oggi.

Care amiche e cari amici,

da tanto avrei voluto scrivervi per dare notizie, ma nuovi avvenimenti e nuove situazioni mi hanno fatto rimandare il momento. Poi alcuni giorni fa, per caso (oppure non lo è stato) ho incontrato una persona anziana che mi ha parlato bene di Edgardo (il professore) dicendomi che sapeva di un suo interessamento verso l’Africa poi chiedendomi:

“Dunque voi chi siete? E cosa fate?” È stato un momento imbarazzante. Avrei potuto rispondere tanto e niente.

Lo faccio ora brevemente, tralasciando nomi e cognomi, per essere più dettagliato durante la prossima vicina assemblea ordinaria dei soci (sabato 29 settembre prossimo alle ore17:30 a villa Pallavicini dopo la messa in suffragio di Edgardo Monari che si celebrerà alle ore 16:30) e durante gli incontri che stiamo preparando in occasione del 30esimo anniversario della fondazione di Solidarietà e Cooperazione Senza Frontiere nata ufficialmente nel 1982.

Intanto posso dire che oggi sono presenti in cantiere 61 operai africani e tre amici italiani. Il lavoro principale consiste nella esecuzione dei getti in calcestruzzo per le opere complementari alla condotta forzata (blocchi e selle di appoggio); frantumazione dei blocchi di roccia per la preparazione della ghiaia, introvabile sul posto e con costi impossibili. Un’altra notizia importante è che finalmente la TAC è di nuovo in funzione e viene utilizzata per i pazienti del Bugando Medical Centre di Mwanza. Pensate che attualmente questa è l’unica TAC operativa per un bacino di milioni di persone le altre, che si contano sulle dita di una mano, o sono fuori servizio per mancanza di fondi per la manutenzione o sono private a pagamento e si usano solo con la CARTA di CREDITO. L’ultimo intervento di manutenzione è stato eseguito – LAMPO – dall’amico Gandini il lunedì mattina per Mwanza e tornato il venerdì successivo per riferire di avere risolto l’inconveniente. Vorrei sottolineare la tempestività e gratuità dell’intervento. In questi giorni sono arrivati ad Iringa 3 container pieni di materiali necessari ai nostri lavori. Ci sono anche 750 m2 di pavimenti ceramici che assieme a Stefano sono stati ordinati da amici di Sassuolo per la scuola di monsignor Vescovo.

A proposito di Monsignore, da poco nominato segretario della Conferenza Episcopale di Tanzania, a lui rinnovo i miei e nostri complimenti e felicitazioni.

A questo punto non mi resta che ringraziare tutti gli amici di Reggio Emilia, le Sorelle della Provvidenza per l’infanzia abbandonata di Piacenza con in testa la madre generale Suor Carla Rebolini, tutti gli amici di Bologna e San Giovanni, gli amici della Romagna e i saldatori della condotta, gli amici della Brulli Energia, della ZECO Hydropower e della Marelli Motori Elettrici e tutti coloro che in qualche modo, anche minimo, hanno partecipato o stanno partecipando alla realizzazione dei nostri progetti. Un grazie particolare a mons. Paul Ruzoka Arcivescovo di Tabora, a mons. Tarcisius Ngalalekuntwa Vescovo di Iringa, ed a tutti i sacerdoti, padre Luciano, padre Peter e gli altri incaricati dai vescovi a partecipare alla nostra AVVENTURA AFRICANA.

Auguro a tutti voi ogni bene, un abbraccio forte.

Gianfranco Manservisi

(Presidente di Solidarietà e Cooperazione Senza Frontiere o.n.g.)     

Preparativi per i lavori 2012

Il periodo di silenzio trascorso dopo le feste natalizie corrisponde in realtà ad un periodo di grande fermento e di preparazione delle attività che riprenderanno anche in Tanzania alla fine della stagione umida con il primo viaggio del 2012 che partirà alla metà di maggio prossimo.

Come sapete attualmente siamo impegnati su tre fronti principali:

Il primo progetto e più importante, è il Progetto Idroelettrico Integrato H.I. Project Madege (Bread, Water, Heath, Education, Work) “Pane, Acqua, Salute, Istruzione Lavoro” che ci vede impegnati nel completamento della prima parte dell’impianto idroelettrico da 2.4 MW sul fiume Lukosi a 70 km dalla città di Iringa in Tanzania, che permetterà di portare energia elettrica ad un bacino di circa 15 villaggi.
Attualmente stiamo organizzando il viaggio dei nostri amici di Reggio Emilia (Mario, Marco, Giuseppe e Annamaria) che cercheranno di completare assieme ai nostri amici africani (diamo lavoro a circa 40 famiglie locali) i getti dei blocchi di tenuta e di ancoraggio della condotta e di predisporre quanto necessario per la posa dell’ultimo tratto che dovrà arrivare alla base del salto e collegarsi alla biforcazione che suddivide l’alimentazione elle due linee d’asse (turbina – alternatore) previste.
Qui di seguito riporto alcune immagini dei lavori eseguiti nell’ultimo viaggio del 2011 scattate da Giuseppe Tamagnini che testimonionano lo stato di avanzamento dei lavori e l’entità degli stessi



Il secondo progetto è quello ormai “storico” che ha portato alla realizzazione (su nostro progetto e finanziamento) del nuovo padiglione di medicina nucleare che accoglie il servizio di tomografia assiale computerizzata intitolata al Prof. Monari (Professor Edgardo Monari C.T. Scanner Service) presso il Bugando Medical Centre di Mwanza, inaugurato nell’ottobre del 2009 con l’installazione ed il collaudo (ad opera del nostro amico Zelindo Gandini) di una apparecchiatura donataci dall’ospedale di Mirandola.
Come alcuni già sanno questa apparecchiatura, purtroppo, è attualmente fuori servizio a causa dei continui sbalzi di tensione cui è soggetto l’impianto elettrico dell’ospedale che troppo spesso manda in tilt tutte le scarse e datate apparecchiature elettriche di cui è dotato la struttura (comprese quelle delle sale operatorie !).
Con grande sforzo organizzativo e finanziario siamo riusciti a trovare le parti di ricambio che occorrono per la riparazione (già sul posto) ed anche le apparecchiature di protezione (regalateci dalla ditta  Emerson Cloride per l’interessamento del signor Luca Bolelli) che sono ormai giunte al porto di Dar Es Salaam dove aspettano di essere trasportate a Mwanza (sono circa 800 km di strade africane) per poter finalmente rimettere in esercizio questa importante attrezzatura diagnostica della quale il centro medico è attualmente praticamente sprovvisto (dato che la seconda apparecchiatura di questo tipo è fuori uso per gli stessi motivi ma per la cui riparazione non sono attualmente disponibili risorse)
Speriamo con tutto il cuore di potervi informare della rimessa in servizio al più presto!

Il terzo progetto e più recente, è quello per la realizzazione della Good Council Boarding School di Tabora cui abbiamo deciso di dare supporto tecnico – logistico, pur nella limitatezza delle risorse economiche che attualmente non possiamo distrarre dal progetto idroelettrico, e che ci vede impegnati nel sostegno alla realizzazione di un importante iniziativa dell’Arcidiocesi di Tabora  per la costruzione di una casa di accoglienza per 50 bambini albini e down abbandonati e di una scuola materna dove poterli re-inserire assieme ai loro coetanei in una società che impari ad accettarli invece di emarginarli come accade spesso nelle campagne e nei villaggi più lontani ed arretrati dove questi sfortunati bambini sono ancora visti come simbolo di sventura e fatti oggetto di persecuzione (quando non di peggio) per alimentare un criminale commercio di amuleti umani sostenuto da ignoranza e superstizione.

Good Coucil Boarding School in Tabora

Good Coucil Boarding School in Tabora

Da ora in poi troverete gli aggiornamenti di questo progetto direttamente in una pagina espressamente dedicata alla sua realizzazione: http://taborajournal.wordpress.com/
In questo spazio vi informeremo di tutte le iniziative e le attività per la promozione di questo importante progetto.

Mi rivolgo a quel lettore o due…

Carlo Lesi

Stasera si parte per tornare a casa. E’ il momento delle considerazioni e dei saluti. Mi rivolgo a quel lettore o due ( Manzoni nei Promessi Sposi si rivolgeva ai suoi venticinque lettori: non ambisco a tanto), oltre a mia moglie Maria, che hanno avuto la bontà di seguire i resoconti di Stefano e miei. Nati per scherzo fra di noi via via sono stati per me e credo anche per Stefano motivo di divertente riflessione serale al termine di giornate impegnative e faticose sia per i continui trasferimenti in differenti parti della Tanzania sia per i colloqui con i vescovi di alcune diocesi, il loro collaboratori ed i responsabili civili delle varie città dove siamo stati. Fra l’altro, nel redigere gli appunti di viaggio, non ci siamo influenzati a vicenda perché, per motivi tecnici del mio computer, non sono riuscito a collegarmi ad Internet e quindi al sito di Solidarietà. I resoconti di Stefano li leggerò a casa. Sarà una sorpresa.

Per quanto mi riguarda mi sono pian piano allontanato dalla descrizione del viaggio per accentrare l’attenzione su di un avvenimento – anche se di minore importanza – che durante la giornata aveva acceso la mia fantasia perché fonte di riflessione sulla vita quotidiana delle persone incontrate. Di certo per conoscere un popolo forse non basta una vita e due settimane sono insufficienti, ma con un po’ di attenzione si possono cogliere particolari utili alla comprensione. Questa è stata la linea di fondo seguita.

Che dire del viaggio? Lo definirei intenso sia per i continui spostamenti sia per le numerose persone incontrate. Intenso dal punto di vista logistico e dei contenuti. Altri, più competenti del sottoscritto, ne trarranno le conseguenze “politiche” per l’attività futura di Solidarietà ed in particolare nei confronti dell’impianto idro-elettrico di Maguta. Sono sicuro che l’opera andrà a buon fine a tutto vantaggio delle popolazioni locali. Momenti salienti sono stati il viaggio a Tabora perché ci siamo inoltrati in una parte della Tanzania non battuta dai turisti spingendoci nel cuore del paese, la salita nella pace di Maguta sulle ardue montagne sopra Iringa e la visita al Ruaha National Park a diretto contatto con un ampio spettro di animali, alcuni visti da pochi passi. La vista finale del leone e della leonessa ha rappresentato il degno coronamento della visita.

Venire in Tanzania – credo si possa dire in Africa- si entra in contatto con un modo di vivere completamente diverso dal nostro, direi talvolta opposto a cui occorre prepararsi se non si vuole assumere un atteggiamento miope di incomprensione o peggio di ostilità. Non ci sono realtà migliori o peggiori, ce ne sono di diverse che contribuiscono con le loro peculiarità a formare questa gustosa marmellata che è la vita sulla terra.

Se ho annoiato i miei due lettori chiedo venia e da stasera toglierò il disturbo, se in qualche modo hanno resistito nella lettura trovando qualche interesse mi fa piacere e li ringrazio.

 

Carlo Lesi

 

Attori del viaggio in ordine di apparizione.

 

GFM: Gianfranco Manservisi, Presidente ONG Solidarietà e Cooperazione Senza Frontiere;

SM: Stefano Manservisi, di lui figlio;

CL: Carlo Lesi, scrivano;

MC: Mario Canali, colonna portante della ONG;

JWA: Ing John Asghedon, lavora in Tanzania e collabora con la ONG;

P. PW: Padre Peter Wissa, segretario del Vescovo di Iringa;

P.LM: Padre Luciano Mpoma, procuratore del Vescovo di Iringa a Dar Es Salaam.

Il caos di Dar … 20 ottobre

Stefano Manservisi

Oggi comincia il rientro vero e proprio. Sveglia alle 6:30 per avere il tempo di completare i diari e la pubblicazione sulla nostra pagina web degli scritti di Carlo. Colazione alle 8 e alle 9 siamo già sulla old Morogoro road diretti verso la statale che ci ricondurrà verso est a Dar.

Da Morogoro a Dar la presenza umana è molto più densa e se lasciando Morogoro i villaggi sono intercalati da grandi piantagioni di agave (che serviva per le cime delle navi, or sorpassate da prodotti sintetici di importazione), dopo l’abitato di Chalinze è una ininterrotta teoria di villaggi, mercati agli incroci con le piste che arrivano dall’interno e agglomerati sorti nei pressi di una fermata di bus o di una stazione di “pesa” per i TIR.

Luciano guida veloce con qualche apprensione di Carlo e Mario ma i rallentamenti sono mille: dissuasori in grado di trasformare le auto in tori meccanici da rodeo; camion sovraccarichi o in procinto di esalare l’ultimo nerastro respiro puzzolente e i sorpassi azzardati delle corriere lanciate a velocità supersoniche alle quali è opportuno cedere il passo.

In questo modo io posso approfittarne per cercare di catturare quante più occasioni possibili per fissare immagini delle mille scene di vita africana on the road: donne con carichi improbabili in sicuro equilibrio sulla testa vestite di colori sgargianti ma sempre non prive di una dignitosa eleganza; officine improvvisate dove gruppi di tecnici più o meno pratici discutono animatamente sul da farsi; moto taxi (i famosi pikipiki) che sfrecciano trasportando eroici passeggeri sprezzanti del pericolo e delle leggi della fisica; carretti faticosamente spinti a braccia con carichi abnormi; mamme con bambini sulla schiena e poi ciclisti, pedoni, persone ferme alle fermate dei bus, bancarelle che vendono qualsiasi cosa purché sia colorata e tantissime altre scene che cerco di cogliere al volo dal finestrino del Toyota.

Facciamo una breve sosta in un “business center” lungo la strada in corrispondenza di un affollato sobborgo dove Luciano procura in banca una serie di banconote e monete della Tanzania per Gianfranco.

Alle porte di Dar la strada guadagna due corsie ma anche molti altri veicoli e infatti, non faccio in tempo a pensare che tutto sommato fino ad ora siamo andati piuttosto spediti che siamo in coda fermi in attesa di attraversare l’immissione delle Morogoro road con la Mandela road.

E’ ormai mezzogiorno e decidiamo di andare direttamente alla Nazareth House per lasciare Luciano e caricare il nostro autista ufficiale, Elia, che ci ha preceduto a Dar in bus.

Al Pope John Paul II occupiamo le camere e andiamo a mangiare un boccone al bar.

Dopo essermi un poco rinfrescato, alle 4 in punto Elia passa a prendermi per portarmi di nuovo alla Nazareth dove Luciano mi ha chiesto di fare un giro per l’edificio e dargli qualche suggerimento per la futura ristrutturazione. L’obiettivo sarebbe quello di dotare le camere esistenti di bagno e di soprelevare tutto di un piano. Posto che è necessaria la verifica delle fondazioni e delle strutture (queste ultime a vista molto probabilmente in grado di sopportare un piano in più) mi pare che l’operazione sia possibile e realistica, cerco di dargli qualche suggerimento concreto sia dal punto di vista distributivo che impiantistico e gli do la disponibilità a valutare qualche alternativa quando potrà mandarmi i disegni delle piante attuali.

Alle 5 e un quarto Mario Carlo e Gianfranco arrivano a prendermi per andare all’Oyster bay al nostro solito centro commerciale dove fare gli ultimi acquisti. Purtroppo il traffico non è ancora smaltito e arriviamo che i negozi sono già chiusi, pazienza, entriamo nel supermercato che per fortuna chiude più tardi e comperiamo The, caffè e spezie della Tanzania da portare a casa, poi ci sediamo per la cena e rientriamo.

Alle 8:30 il traffico è finalmente più scorrevole e arriviamo in camera poco dopo le nove.

 

Domattina potremo dormire un poco di più, poi passeremo la mattina in giro per Dar e il pomeriggio cercando di stivare i souvenir nelle valigie. Poi alle 8 di sera ci faremo accompagnare al Julius Nierere International Airport per prendere il volo KLM che ci porterà ad Amsterdam dove atterreremo sabato mattina per prendere il volo per Bologna.

 

Il saluto

Carlo Lesi

Ai lati della strada si muove un brulichio di persone: bambini/e in divisa ( camicetta bianca; gonna o calzoncini bleu) che vanno a scuola, ragazzi o uomini in bicicletta con carichi pesanti talvolta su ripide salite sotto un sole cocente, donne che portano sulla testa in perfetto equilibrio un sacco di farina o un secchio d’acqua – imparano fin da piccoli, ragazzi/e che vendono in modo festoso le loro mercanzie ( pomodori, polli, carbone), uomini e donne con la zappa sulla spalla che vanno o tornano dal campo, ragazzi nullafacenti che siedono con fierezza sulle loro fiammanti motociclette, alcuni senza un’apparente attività. Si incontrano ed anche se non si conoscono hanno un tratto comune: si salutano sempre, sorridendo. Si incontrano dieci volte nella giornata, si salutano sorridendo dieci volte! Se poi non hanno fretta o è la prima volta nella giornata che si incontrano si stringono la mano.. Si salutano anche a lungo o addirittura per tutto il tempo della conversazione che può durare anche molti minuti. Lo swahili è una lingua che usa molte parole per esprimere un concetto. E’ più analitica che sintetica. In alcune zone del paese, specie nel sud, le strette di mano sono accompagnate da un gesto di rispetto che consiste nel toccarsi il gomito destro con la mano sinistra e da un inchino o da un suo accenno. Il saluto è accompagnato da uno scambio di parole: cominciano dandosi il benvenuto: karibu ! che può diventare karibu sana ( benvenuto molto) quando vogliono attribuire enfasi al saluto soprattutto nei confronti di uno straniero. Sembra che in quel momento si sentano responsabili di salutare la persona che hanno di fronte a nome della popolazione intera. A saluto risposta: ahsante ( grazie) che può amplificarsi in ahsante sana ( grazie molto) a seconda del calore umano che si è creato. Raccontava un amico che, da più di venti anni viene in Tanzania, che un giorno chiese per strada ad una persona un’informazione senza salutarlo. Quella persona si offese tanto che non gliela voleva dare. “ Chi sei? “ gli domandò perché non lo conosceva. Poi prevalse la gentilezza innata dei tanzaniani e lo accompagnò addirittura sul posto. Tali attenzioni nei confronti della persona con cui si parla si manifestano anche a tavola, per cui non è sconveniente mangiare o passare alimenti con la mano sinistra: potrebbe sembrare scarso apprezzamento per il cibo che l’ospite offre. Se ci si reca invitati a casa da un amico tanzaniano, prima di entrare è doveroso dire: hodi? ( posso?) in attesa di ricevere l’immancabile karibu. Nel caso poi vengano fatti regali è tradizione accettarli con entrambe le mani o con la mano destra mentre con la sinistra ci si tocca il gomito sinistro. A qualcuno tali atteggiamenti possono sembrare stucchevoli convenevoli, espressione di un galateo di altri tempi. Al sottoscritto invece appaiono un comportamento rispettoso di un popolo nei confronti del prossimo che affonda le radici nella sua storia. Va accolto e rispettato.

Paese che vai usanze che trovi

Carlo Lesi

Aspetto positivo di un viaggio all’estero è quando si riesce ad entrare negli usi e costumi della popolazione locale. Ieri a tavola con Lucio e Bruna il discorso è caduto sulla moderna tecnologia sanitaria occidentale che permette alle persone di superare fasi molto critiche delle loro malattie

( infarti, ictus) allungando l’esistenza. L’aspettativa di vita in Italia è per le donne di 84 anni e di 78 anni per gli uomini. In Tanzania di circa 50 anni. In questo modo – affermavano – la morte viene sempre più allontanata nel tempo quasi non fosse un evento naturale della vita. Scriveva Tiziano Terzani nel libro “L’ ultimo giro di giostra” che nel linguaggio comune italiano si è superato il tabù della sessualità di cui ora si parla apertamente, mentre resiste quello della morte che si tenta anche di esorcizzare. Invece in Tanzania – penso in Africa – la morte fa parte della vita. Di qui il senso del limite, della finitezza che il popolo possiede. Sa di non essere onnipotente, mentre i popoli occidentali danno l’impressione di cercare l’onnipotenza dato che la tecnologia li sorregge in questa ricerca allungando talvolta vite disumane. Qui i bambini assistono alla morte dei loro parenti che avviene in casa, si abituano ai morti che vengono sepolti vicino alla capanna, sono un tutt’ uno con il villaggio. Raccontava Bruna che un giorno aveva in casa alcuni bambini che ricordavano con esattezza quanti anni prima era morto un loro genitore, un loro nonno. Imparano che la vita finisce. Da noi si muore il più delle volte in un’anonima camera di ospedale ed i bambini vengono tenuti lontano. Non gli si fanno vedere i morti. I nostri bambini non imparano che la vita ha un termine per cui diventano, anzi diventiamo adulti ed anziani il più delle volte con la sua paura, ricorrendo a gesti scaramantici più o meno simpatici o ad amuleti di ogni genere. Per i tanzaniani imparare fin da bambini che l’esistenza non è eterna ha dei riflessi pratici sulla vita quotidiana: sanno accettare quello che hanno day by day senza preoccuparsi del domani, sanno sorridere e ridere per un nonnulla o anche se non hanno nulla, non si affannano più di tanto se non riescono a fare oggi quanto avevano messo in agenda, sanno accettare i contrattempi o peggio ancora le disgrazie, sanno che non possono cambiare il mondo, sanno che non possono arrivare dappertutto: di grazia se hanno di che mangiare almeno una volta al giorno, se hanno un tetto per quanto di paglia ( ad Iringa se ne vedono molti di lamiera ) sotto cui ripararsi, se riescono a trovare un lavoro tutti i giorni. Forse è giunto il momento in cui noi occidentali abbiamo da imparare a vivere dagli africani?

Il mistero delle flip flop

Stefano Manservisi

C’è una cosa che mi incuriosisce girando la Tanzania: perché le ciabattine infradito (flip flop) che qui usa dare in dotazione alla camera sono sempre rigorosamente e marcatamente spaiare? Magari della stessa serie, ma certamente con colori disegni e taglia diversi … Esiste forse una qualche antica superstizione secondo la quale “porta bene” calzare flip flop spaiate? Per me è già abbastanza curioso il fatto che invece del classico scendiletto o della pedana coordinata alla biancheria da bagno qui diano le ciabattine … ma forse è perché in effetti in qualità di “mzungu” (bianco, straniero … non proprio in senso vezzeggiativo) sono avvezzo a lussi che qui non si possono pretendere o forse perché è più igienica la ciabattina di plastica ? O perché è più economica … non so ma la cosa mi lascia abbastanza indifferente … uso le mie e sono sereno. Ma quello che mi incuriosisce e a proposito del quale fino ad ora non sono riuscito ad avere risposte esaurienti (il massimo che ho ottenuto chiedendo è stata una alzatina di spalle e un sorrisetto) … quello che mi incuriosisce dicevo è il mistero delle flip flop spaiate … Any help?

La domenica andando alla messa

Carlo Lesi

Oggi domenica giorno di riposo. Siamo stati stamattina nei dintorni di Maguta per vedere lo stato di avanzamento dei lavori laddove la condotta forzata compie il balzo finale prima di arrivare a valle per incontrare la turbina che trasforma l’energia idrica in quella elettrica. Lavoro immane compiuto a regola d’arte..

Maguta, dove ha sede Casa Monari ed il cantiere, è una frazione di Madege: è circondata di colline verdeggianti in parte coltivate con cura in parte coperte di boschi. A volte i boschi sono così fitti e gli alberi così alti che pare di essere nella foresta amazzonica. Ovvio che occorre un pizzico di sana fantasia da parte di chi scrive. Di certo è una zona piovosa. Un paesaggio riposante e surreale anche per la presenza di capanne di fango e paglia che ancora si intravvedono ed i bambini scalzi, coperti di polvere e di stracci che si incontrano. In cambio sorridono e ricambiano il saluto educatamente con la mano. Occhi vivaci e sorriso a tutto tondo. Nessun moralismo, ma ogni tanto fa bene ripensarci per provare a dare il giusto valore ai fatti della nostra vita quotidiana “occidentale”. Per immergerci meglio in questa realtà con Stefano abbiamo camminato a piedi sulle strade fangose. Stanotte è piovuto. Oggi cielo plumbeo con apertura pomeridiana al sereno. Nel nostro giro abbiamo incontrato frotte di donne e bambini; pochi gli uomini. Non è facile dare l’età alle donne: sembrano tutte anziane con visi rugosi e lineamenti del volto scolpiti testimonianza della vita faticosa e di stenti che conducono. Vi contribuiscono anche le numerose gravidanze. Mi hanno riferito anche di maltrattamenti da parte degli uomini ubriachi Non sono mai entrato nelle loro case ma a chi è stato loro concesso racconta di interni miseri composti da stuoie per dormire, cavalletti di legno per appoggiare i vestiti, un po’ di legna al centro per accendere il fuoco. Wc open space. A chi scrive piacerebbe conoscere lo swaili ed avere la possibilità di parlare con loro per conoscerne usi e costumi. Anche entrare nelle loro case. Non per curiosità ma per capire. Ritengo che anche queste persone abbiano insegnamenti e saggezza di vita da offrirci. Esempio apparentemente banale sono i vestiti delle donne incontrate oggi: di colori sgargianti, a tinte forti con giochi, disegni ed intrecci di diversi colori che colpiscono a prima vista. Ravvivano l’animo di chi li incrocia. In questo modo manifestano una dignità umana che contrasta con le fatiche che sopportano ogni giorno. Dove stavano andando? A Messa. Con i loro vestiti allegri forse volevano sottolineare l’importanza dell’evento. Questo non è già un insegnamento di vita per noi?

La Condotta … 15 ottobre, sabato

Stefano Manservisi

Dopo pranzo sistemiamo le nostre cose nelle camere e con Carlo tentiamo di risolvere i suoi problemi di connessione che lo hanno isolato dal mondo impedendogli di accedere a Internet. Alla fine riusciamo a risolvere in qualche modo (piuttosto empiricamente), mentre l’ineffabile Mario è già pronto sul Toyota per accompagnarci a vedere l’opera: la condotta forzata.

Scendiamo verso la diga e risaliamo fino alla passerella che la attraversa in tutta la lunghezza. Da qui si può avere una visione di insieme della di tutto il lavoro fatto: a valle dal vano che contiene la valvola a farfalla (in sostanza il “rubinetto” a monte della condotta) scende come un lungo serpentone, la condotta forzata che, adagiata sul ciglio destro (scendendo) della strada di servizio percorre i lieve discesa i primi 900 m di percorso fino ad immettersi nel tratto in caduta quasi verticale fino alla centrale elettrica. A monte si può (per ora) solo immaginare l’invaso che nascerà una volta che, chiusi gli scarichi di fondo della diga, l’acqua avrà allagato l’ansa del Lukosi fino a che il livello non avrà raggiunto la soglia tracimante dello sbarramento che permetterà, una volta riempito il bacino di mantenere invariato il percorso e la portata del Lukosi mantenendo inalterato il suggestivo aspetto delle cascate del Lukosi e delle successive placide anse a valle dello sbarramento. Devo dire che vedere dall’alto quell’enorme serpentone metallico dà grande soddisfazione e suscita una fortissima emozione ed ammirazione per coloro (provenienti dall’Italia o da queste montagne) che l’hanno pensata e realizzata. Ovviamente il pensiero corre anche alla visionaria lungimiranza del Prof. Monari che in un periodo nel qual non era certamente immaginabile l’attuale sviluppo della questione energetica sia locale che mondiale, seppe anticipare a dispetto di tanti pragmatismi limitati l’attuale possibilità di realizzare una opera che può realmente incidere sullo sviluppo locale di queste popolose montagne e che ora può avere anche reali opportunità di auto sostenersi economicamente allontanando lo spettro di avere realizzato una cattedrale nel deserto o comunque uno strumento che una volta lasciato ai suoi legittimi destinatari venga poi abbandonato per mancanza di risorse. Percorriamo quindi tutta la strada di servizio fino all’imponente giunto a “T” da cui parte il salto della condotta verso le turbine in basso e verso il pozzo piezometrico in altro e che si perde sopra la scarpata e si inoltra nella boscaglia sovrastante.

Rientriamo e telefoniamo subito agli artefici di questo miracolo: Marco, Mario, Giuseppe Annamaria e i saldatori che hanno veramente messo a segno un grande colpo per il nostro spirito rinfrancato nel vedere pressoché realizzata una delle parti più difficili ed incognite del nostro progetto.

Certo ci sono ancora molte cose da fare e non meno impegnative come la parte inferiore del salto verso la centrale e la realizzazione del basamento delle turbine e della centrale stessa e degli scarichi che ricondurranno al tranquillo corso del Lukosi le acque che hanno fatto girare le turbine per produrre energia elettrica per questi villaggi.

Cena con pastina nel brodo di verdura e qualche scatoletta. Poi ci dedichiamo ciascuno al proprio diario o al riordino delle proprie cose. Domattina colazione alle 8 e visita al cantiere inferiore.

Sua maestà il Baobab

Carlo Lesi

Nella lunga e faticosa galoppata odierna il paesaggio più affascinante è quello che inizia dopo Mikuni quando si inizia la salita verso l’altopiano che porta ad Iringa. Salendo ci si accorge di essere circondati da montagne maestose che rimangono sullo sfondo. La natura si fa selvaggia tanto che non si osservano insediamenti umani. E’ il regno incontrastato del baobab che accompagna il fiume Piccolo Ruah, che ai piedi della vallata riceve come affluente il Lukosi il fiume della diga di Maguta. Il baobab lo si osserva anche oltre la vallata. Ha un nome simpatico, giocato sulla stessa consonante ripetuta tre volte e tre vocali. Potrebbe essere il nome di una pizza, di un gelato o di un frappé: pizza al baobab, gelato al baobab o se preferite frappè al baobab. E’ un nome dal sapore esotico. Il fusto in genere è grosso e largo per poi sfrangiarsi in numerosi rami bitorzoluti che si assottigliano un po’ alla volta per finire nel nulla. Scarse le foglie per evidenziare l’essenzialità e la nodosità del ramo. La dolce luce del tramonto stasera ne illuminava alcune parte conferendo loro un aspetto lattiginoso. L’ho sempre osservato come l’espressione della vita: nasce con molte speranze che vanno riducendosi con gli anni. Bitorzoli espressione delle difficoltà esistenziali, nodi quali immagini delle scelte da compiere. Lo si potrebbe definire l’albero della vita, vita che nelle zone del baobab deve essere grama: ho visto donne zappare e bambini governare lo scarso bestiame di cui è dotata una famiglia. Ho visto donne magre camminare ai bordi della strada con un cesto sul capo colmo di frutta ed il bambino fasciato sulla schiena. Ho osservato anche qualche uomo lavorare nei campi ma più spesso attorno ad un biliardo con la stecca in mano per colpire le boccette. Non una gran bella figura! Ha ragione chi ha affermato che l’ Africa si salverà grazie alle donne.