Mi rivolgo a quel lettore o due…

Carlo Lesi

Stasera si parte per tornare a casa. E’ il momento delle considerazioni e dei saluti. Mi rivolgo a quel lettore o due ( Manzoni nei Promessi Sposi si rivolgeva ai suoi venticinque lettori: non ambisco a tanto), oltre a mia moglie Maria, che hanno avuto la bontà di seguire i resoconti di Stefano e miei. Nati per scherzo fra di noi via via sono stati per me e credo anche per Stefano motivo di divertente riflessione serale al termine di giornate impegnative e faticose sia per i continui trasferimenti in differenti parti della Tanzania sia per i colloqui con i vescovi di alcune diocesi, il loro collaboratori ed i responsabili civili delle varie città dove siamo stati. Fra l’altro, nel redigere gli appunti di viaggio, non ci siamo influenzati a vicenda perché, per motivi tecnici del mio computer, non sono riuscito a collegarmi ad Internet e quindi al sito di Solidarietà. I resoconti di Stefano li leggerò a casa. Sarà una sorpresa.

Per quanto mi riguarda mi sono pian piano allontanato dalla descrizione del viaggio per accentrare l’attenzione su di un avvenimento – anche se di minore importanza – che durante la giornata aveva acceso la mia fantasia perché fonte di riflessione sulla vita quotidiana delle persone incontrate. Di certo per conoscere un popolo forse non basta una vita e due settimane sono insufficienti, ma con un po’ di attenzione si possono cogliere particolari utili alla comprensione. Questa è stata la linea di fondo seguita.

Che dire del viaggio? Lo definirei intenso sia per i continui spostamenti sia per le numerose persone incontrate. Intenso dal punto di vista logistico e dei contenuti. Altri, più competenti del sottoscritto, ne trarranno le conseguenze “politiche” per l’attività futura di Solidarietà ed in particolare nei confronti dell’impianto idro-elettrico di Maguta. Sono sicuro che l’opera andrà a buon fine a tutto vantaggio delle popolazioni locali. Momenti salienti sono stati il viaggio a Tabora perché ci siamo inoltrati in una parte della Tanzania non battuta dai turisti spingendoci nel cuore del paese, la salita nella pace di Maguta sulle ardue montagne sopra Iringa e la visita al Ruaha National Park a diretto contatto con un ampio spettro di animali, alcuni visti da pochi passi. La vista finale del leone e della leonessa ha rappresentato il degno coronamento della visita.

Venire in Tanzania – credo si possa dire in Africa- si entra in contatto con un modo di vivere completamente diverso dal nostro, direi talvolta opposto a cui occorre prepararsi se non si vuole assumere un atteggiamento miope di incomprensione o peggio di ostilità. Non ci sono realtà migliori o peggiori, ce ne sono di diverse che contribuiscono con le loro peculiarità a formare questa gustosa marmellata che è la vita sulla terra.

Se ho annoiato i miei due lettori chiedo venia e da stasera toglierò il disturbo, se in qualche modo hanno resistito nella lettura trovando qualche interesse mi fa piacere e li ringrazio.

 

Carlo Lesi

 

Attori del viaggio in ordine di apparizione.

 

GFM: Gianfranco Manservisi, Presidente ONG Solidarietà e Cooperazione Senza Frontiere;

SM: Stefano Manservisi, di lui figlio;

CL: Carlo Lesi, scrivano;

MC: Mario Canali, colonna portante della ONG;

JWA: Ing John Asghedon, lavora in Tanzania e collabora con la ONG;

P. PW: Padre Peter Wissa, segretario del Vescovo di Iringa;

P.LM: Padre Luciano Mpoma, procuratore del Vescovo di Iringa a Dar Es Salaam.

Il caos di Dar … 20 ottobre

Stefano Manservisi

Oggi comincia il rientro vero e proprio. Sveglia alle 6:30 per avere il tempo di completare i diari e la pubblicazione sulla nostra pagina web degli scritti di Carlo. Colazione alle 8 e alle 9 siamo già sulla old Morogoro road diretti verso la statale che ci ricondurrà verso est a Dar.

Da Morogoro a Dar la presenza umana è molto più densa e se lasciando Morogoro i villaggi sono intercalati da grandi piantagioni di agave (che serviva per le cime delle navi, or sorpassate da prodotti sintetici di importazione), dopo l’abitato di Chalinze è una ininterrotta teoria di villaggi, mercati agli incroci con le piste che arrivano dall’interno e agglomerati sorti nei pressi di una fermata di bus o di una stazione di “pesa” per i TIR.

Luciano guida veloce con qualche apprensione di Carlo e Mario ma i rallentamenti sono mille: dissuasori in grado di trasformare le auto in tori meccanici da rodeo; camion sovraccarichi o in procinto di esalare l’ultimo nerastro respiro puzzolente e i sorpassi azzardati delle corriere lanciate a velocità supersoniche alle quali è opportuno cedere il passo.

In questo modo io posso approfittarne per cercare di catturare quante più occasioni possibili per fissare immagini delle mille scene di vita africana on the road: donne con carichi improbabili in sicuro equilibrio sulla testa vestite di colori sgargianti ma sempre non prive di una dignitosa eleganza; officine improvvisate dove gruppi di tecnici più o meno pratici discutono animatamente sul da farsi; moto taxi (i famosi pikipiki) che sfrecciano trasportando eroici passeggeri sprezzanti del pericolo e delle leggi della fisica; carretti faticosamente spinti a braccia con carichi abnormi; mamme con bambini sulla schiena e poi ciclisti, pedoni, persone ferme alle fermate dei bus, bancarelle che vendono qualsiasi cosa purché sia colorata e tantissime altre scene che cerco di cogliere al volo dal finestrino del Toyota.

Facciamo una breve sosta in un “business center” lungo la strada in corrispondenza di un affollato sobborgo dove Luciano procura in banca una serie di banconote e monete della Tanzania per Gianfranco.

Alle porte di Dar la strada guadagna due corsie ma anche molti altri veicoli e infatti, non faccio in tempo a pensare che tutto sommato fino ad ora siamo andati piuttosto spediti che siamo in coda fermi in attesa di attraversare l’immissione delle Morogoro road con la Mandela road.

E’ ormai mezzogiorno e decidiamo di andare direttamente alla Nazareth House per lasciare Luciano e caricare il nostro autista ufficiale, Elia, che ci ha preceduto a Dar in bus.

Al Pope John Paul II occupiamo le camere e andiamo a mangiare un boccone al bar.

Dopo essermi un poco rinfrescato, alle 4 in punto Elia passa a prendermi per portarmi di nuovo alla Nazareth dove Luciano mi ha chiesto di fare un giro per l’edificio e dargli qualche suggerimento per la futura ristrutturazione. L’obiettivo sarebbe quello di dotare le camere esistenti di bagno e di soprelevare tutto di un piano. Posto che è necessaria la verifica delle fondazioni e delle strutture (queste ultime a vista molto probabilmente in grado di sopportare un piano in più) mi pare che l’operazione sia possibile e realistica, cerco di dargli qualche suggerimento concreto sia dal punto di vista distributivo che impiantistico e gli do la disponibilità a valutare qualche alternativa quando potrà mandarmi i disegni delle piante attuali.

Alle 5 e un quarto Mario Carlo e Gianfranco arrivano a prendermi per andare all’Oyster bay al nostro solito centro commerciale dove fare gli ultimi acquisti. Purtroppo il traffico non è ancora smaltito e arriviamo che i negozi sono già chiusi, pazienza, entriamo nel supermercato che per fortuna chiude più tardi e comperiamo The, caffè e spezie della Tanzania da portare a casa, poi ci sediamo per la cena e rientriamo.

Alle 8:30 il traffico è finalmente più scorrevole e arriviamo in camera poco dopo le nove.

 

Domattina potremo dormire un poco di più, poi passeremo la mattina in giro per Dar e il pomeriggio cercando di stivare i souvenir nelle valigie. Poi alle 8 di sera ci faremo accompagnare al Julius Nierere International Airport per prendere il volo KLM che ci porterà ad Amsterdam dove atterreremo sabato mattina per prendere il volo per Bologna.

 

Il saluto

Carlo Lesi

Ai lati della strada si muove un brulichio di persone: bambini/e in divisa ( camicetta bianca; gonna o calzoncini bleu) che vanno a scuola, ragazzi o uomini in bicicletta con carichi pesanti talvolta su ripide salite sotto un sole cocente, donne che portano sulla testa in perfetto equilibrio un sacco di farina o un secchio d’acqua – imparano fin da piccoli, ragazzi/e che vendono in modo festoso le loro mercanzie ( pomodori, polli, carbone), uomini e donne con la zappa sulla spalla che vanno o tornano dal campo, ragazzi nullafacenti che siedono con fierezza sulle loro fiammanti motociclette, alcuni senza un’apparente attività. Si incontrano ed anche se non si conoscono hanno un tratto comune: si salutano sempre, sorridendo. Si incontrano dieci volte nella giornata, si salutano sorridendo dieci volte! Se poi non hanno fretta o è la prima volta nella giornata che si incontrano si stringono la mano.. Si salutano anche a lungo o addirittura per tutto il tempo della conversazione che può durare anche molti minuti. Lo swahili è una lingua che usa molte parole per esprimere un concetto. E’ più analitica che sintetica. In alcune zone del paese, specie nel sud, le strette di mano sono accompagnate da un gesto di rispetto che consiste nel toccarsi il gomito destro con la mano sinistra e da un inchino o da un suo accenno. Il saluto è accompagnato da uno scambio di parole: cominciano dandosi il benvenuto: karibu ! che può diventare karibu sana ( benvenuto molto) quando vogliono attribuire enfasi al saluto soprattutto nei confronti di uno straniero. Sembra che in quel momento si sentano responsabili di salutare la persona che hanno di fronte a nome della popolazione intera. A saluto risposta: ahsante ( grazie) che può amplificarsi in ahsante sana ( grazie molto) a seconda del calore umano che si è creato. Raccontava un amico che, da più di venti anni viene in Tanzania, che un giorno chiese per strada ad una persona un’informazione senza salutarlo. Quella persona si offese tanto che non gliela voleva dare. “ Chi sei? “ gli domandò perché non lo conosceva. Poi prevalse la gentilezza innata dei tanzaniani e lo accompagnò addirittura sul posto. Tali attenzioni nei confronti della persona con cui si parla si manifestano anche a tavola, per cui non è sconveniente mangiare o passare alimenti con la mano sinistra: potrebbe sembrare scarso apprezzamento per il cibo che l’ospite offre. Se ci si reca invitati a casa da un amico tanzaniano, prima di entrare è doveroso dire: hodi? ( posso?) in attesa di ricevere l’immancabile karibu. Nel caso poi vengano fatti regali è tradizione accettarli con entrambe le mani o con la mano destra mentre con la sinistra ci si tocca il gomito sinistro. A qualcuno tali atteggiamenti possono sembrare stucchevoli convenevoli, espressione di un galateo di altri tempi. Al sottoscritto invece appaiono un comportamento rispettoso di un popolo nei confronti del prossimo che affonda le radici nella sua storia. Va accolto e rispettato.

Il mistero delle flip flop

Stefano Manservisi

C’è una cosa che mi incuriosisce girando la Tanzania: perché le ciabattine infradito (flip flop) che qui usa dare in dotazione alla camera sono sempre rigorosamente e marcatamente spaiare? Magari della stessa serie, ma certamente con colori disegni e taglia diversi … Esiste forse una qualche antica superstizione secondo la quale “porta bene” calzare flip flop spaiate? Per me è già abbastanza curioso il fatto che invece del classico scendiletto o della pedana coordinata alla biancheria da bagno qui diano le ciabattine … ma forse è perché in effetti in qualità di “mzungu” (bianco, straniero … non proprio in senso vezzeggiativo) sono avvezzo a lussi che qui non si possono pretendere o forse perché è più igienica la ciabattina di plastica ? O perché è più economica … non so ma la cosa mi lascia abbastanza indifferente … uso le mie e sono sereno. Ma quello che mi incuriosisce e a proposito del quale fino ad ora non sono riuscito ad avere risposte esaurienti (il massimo che ho ottenuto chiedendo è stata una alzatina di spalle e un sorrisetto) … quello che mi incuriosisce dicevo è il mistero delle flip flop spaiate … Any help?

Ruaha National Park … 17 ottobre

Stefano Manservisi

Un’altra levataccia (alle 4:45) me se non altro questa volta non è per andare a prendere un aereo ma per andare al Ruaha National Park.

Dopo tanto galoppare (in 6 giorni abbiamo girato 4 angoli della Tanzania: Dar, Mwanza, Tabora e Iringa) alla fine siamo riusciti a ritagliarci una giornata quasi intera per noi.

Viaggiando in Tanzania, non è che ci si debba aspettare di affrontare pericoli o incognite avventurose, finche tutto va per il verso giusto “apana problem” nessun problema, però non bisogna ma dimenticare che non siamo a casa nostra e che se capita qualche inconveniente non sempre le cose si possono risolvere con una telefonata. Quindi in questi nostri viaggi intensi e pieni di appuntamenti e incontri è necessario avere un certo margine di tempo e sapere che i programmi si fanno per rifarli. Così ormai esauriti la maggior parte degli impegni ed essendo tutto andato sinora per il meglio possiamo attingere un poco di tempo da quei margini che mi ero tenuto.

Alle 8 siamo ad Iringa e dopo avere fatto il pieno in una delle nostre usuali stazioni di rifornimento entriamo in vescovado per incontrare Luciano e Peter che ci accompagneranno al Ruaha National Park., mentre Mario con i nostri due autisti e il Toyota più vecchio, resteranno a Iringa per sbrigare alcune questioni e passare in officina. Mario è già stato più volte al Ruaha e certamente si diverte di più a girare per Iringa dove credo che ormai tutti lo conoscano.

Dopo una breve colazione offertaci nella sala da prenzo, sempre pronta e imbandita per ogni evenienza a qualsiasi ora, Luciano mi dice che non potrà accompagniarci perchè deve restare in sede per preparare assieme agli altri invitati all’incontro di domattina l’agenda di lavoro (!).

Questa mattina avrò anche l’occasione finamente di guidare io il Toyota per le strade di Iringa perchè Peter, prima di accompagnarci, deve portare una macchina della Diocesi al RUCO (Ruaha University College), in pratica l’Università Cattolica di Iringa, un’altra istituzione voluta e sostenuta dalla diocesi locale che ha grande sensibilità e molte attività nel campo dell’istruzione e della formazione.

Lasciamo Iringa verso le 10 e finalmente ci dirigiamo verso il parco. Lasciati i sobborghi ad ovest della citta, dove nuovi quartieri si stanno sviluppando senza una chiara ed efficace pianificazione e in evidente carenza delle infrastrutture minime di urbanizzazione (niente rete fognaria, solo l’indicazione dell’obbligo di dotarsi di fossa biologica, senza poi preoccuprsi di dove e come queste scarichino a loro volta, niente strade, distribuzione elettrica caotica e acquedotto insufficiente) imbocchiamo la strada che porta al bivio per la missione di Tosamaganga dove si trova anche il St. John of the Cross Hosptal. L’asfalto finisce al bivio per Tosamaganga, di qui saranno altri circa 120 km di strada bianca fino all’ingresso del parco. Subito dopo la fine dell’asfalto e fino a che si incontrano abitati e abitanti incrociamo una sequenza di chiesette bianche, Peter ci dice che sono chiese Ortodosse, realizzate non molti anni fa con fondi provenienti dalla Grecia ma che non sembrano avere riscosso particolare seguito.

Padre Peter ci spiega come interventi di questo tipo non sono rari in Tanzania e ci porta l’esempio della serie di piccole moschee, tutte simili e costruite qualche anno prima con fondi arabi. Peter ci spiega che si tratta, secondo il suo punto di vista,di interventi di puro proselitismo, infatti si tratta sempre di interventi realizzati lungo le strade principali, dove è più facile essere visti de è più economico costruire e meno impegnativo gestire, ma anche dove in realtà c’è meno necessità, in quanto insediati dove già ci sono attività e commercio, all’interno lontani dalle direttrici principali è più faticoso difficoltoso intervenire; ci dice anche che spesso poi se persone o familie in difficolttà si rivolgono a queste strutture, la possibilità di ottenere qualche aiuto è legata al rinnegare la propria fede per abbracciare le loro.

Una volta superati gli ultimi villaggi, la discesa dall’altopiano di Iringa alla piana del Ruaha dura decine di chilometri e percorrendo la strada sterrata che taglia una infinita foresta secca e disabitata è priva di orizzonte, sembra una infinita discesa verso il mare indefinitamente lontano.

Arriviamo al gate di ingresso al parco: Mzngu 20$ local 1$ … mi pare una buona idea chissà se è esportabile.

Comunque appena entrati, proprio al ponte per attraversare il fiume Ruaha, il primo spettacolo: ippopotami, coccodrilli e aironi … bellissimo! Dopo la prima raffica di fotografie proseguiamo fino al Park HQ dove carichiamo (per 16000 Tsh) la nostra guida alla quale chiediamo subito se si riescono a vedere i leoni. Purtroppo l’orario non ci è propizio ma ci assicura che farà il possibile. Mentre siamo alla ricerca dei leoni incontriamo una piccola mandria di zebre con anche i piccoli, poi gazzelle, impala, gnu, bufali, babbuini e altre scimmie, pernici, struzzi, uccellini dai colori vavaci impossibili da fotografare al volo, e uccellini dal becco rosso tipici del Ruaha …e alla fine quando ormai stavamo per rinunciare a cercarli … ecco i leoni. Non molto vicini … anzi piuttosto lontanucci, sulla riva opposta di un fiume secco , ma comunque abbastanza vicini da essere distinguibili e fotografabili, e subito dopo … la pattuglia della jungla, che per chi si ricorda “il libro della jungla” è composta da elefanti in buon ordine che marciano in fila indiana sotto la guida del loro capo. Il parco del Ruaha in questa stagione è secco, ma pur sempre pinteggiato da una incrdibile quantità di differenti alberi verdi che spiccano in mezzo ad un mare di alberi secchi ed arbusti.

Sono ormai passate le quattro e quando la guida ci chiede se vogliamo continuare la ricerca dei leoni dietro la montagna, a malinquore dobbiamo declinare, perchè è già ora di rintrare. Uscendo dal parco imbocchiamo un itinerario parallelo ma che ci dice Peter essere più breve di quello fatto all’andata anche se leggermente più disagevole.

Rientriamo nelle camere, dopo avere lasciato Peter in vescovado, alle 16:30, giusto il tempo di farsi una doccia per toglersi di dosso la polvere dei chilometri percorsi e i nostri amici, Peter, Luciano e Isàia vengono a prederci per portarci a cena in un bel ristorantino indiano di cui ignoravamo l’esistenza.

Dopo cena e dopo esserci accordati per l’incontro di domattina rientrimo in camera. Mi bruciano gli occhi per la luce, la polvere, il sonno, ma è stata veramente una bella giornata.

La strada maestra di vita

Carlo Lesi

Prima di salire a Maguta ci siamo fermati ad Iringa nelle vicinanze del mercato. Mentre aspettavamo che aprisse l’emporio per la spesa si sono avvicinati due ragazzi che hanno salutato Mario che conoscono da anni. Mario ad Iringa è di casa sia per gli acquisti che compie sia per la manutenzione che compie a favore dei fuoristrada della ONG. Il suo carattere aperto lo porta a diventare con facilità rafiki ( amico in swaili) di molti. Edmund e Julius ci hanno salutato con il tipico calore del popolo tanzaniano. Sorrisi, strette di mano, l’immancabile karibu ( benvenuto) battute che si concludono sempre con una risata. E’ un popolo che possiede ancora il senso ed il sapore della risata. Con occhi vivaci e sorriso smagliante hanno pian piano tolto dalle borse, che portavano a tracolla, alcuni oggetti che hanno posto per terra: piccoli animali e sopramobili in legno, stuoie di varia grandezza, disponibili i due ragazzi a sconti favolosi!!?. Un negozio inventato lì per lì sul marciapiede all’aria aperta: open space diremmo noi per darci un tono. Non ci vuole molto: oggetti da proporre, un abile venditore, un acquirente accalappiato ed il gioco è fatto. Inizia la contrattazione. Si da il caso che l’acquirente non fosse interessato all’acquisto per cui il colloquio è divagato su altri argomenti favorito dalla buona conoscenza dell’inglese di uno dei due. Inglese imparato on the road a contatto con i turisti che passano da Iringa fra giugno e settembre. Alla faccia di tutte le scuole costose in cui si insegna inglese! Hanno subito soggiunto che ci sono anche molti volontari ma non hanno soldi per cui comperano poco o nulla. I nostri amici però si ingegnano con altre fonti di guadagno per mangiare e vivere loro e la famiglia che hanno sulle spalle. Sono entrambi padri uno di una bimba di un anno e l’altro di due bimbi di quattro e due anni: una sola è la moglie. I bambini devono crescere robusti hanno replicato alle domande del mancato acquirente. Il ragazzo che sapeva l’inglese si è lanciato a raccontare di vendere la sua mercanzia anche in un negozio che possiede fuori città aggiungendo che per arrotondare gli affari lavora la terra, come anche il suo amico altrettanto furbo ma penalizzato dal masticare poco l’inglese. Visto che l’acquirente tergiversava gli hanno detto chiaro e tondo – sempre con un ironico sorriso sulle labbra – che se non acquistava nulla non avevano soldi per nutrire i figli che così si sarebbero ammalati. Poiché il possibile compratore ha un cuore ha dato loro appuntamento on the road la prossima settimana quando ripasserà da Iringa. Non sono necessarie agende per vederlo. Il filo sottile della domanda e dell’offerta porterà ad incontrarli. Ed il futuro acquirente mentre saliva sul Toyota che lo avrebbe portato a Maguta ha pensato che è la strada ad essere maestra di vita e non la storia come ci è stato insegnato sui banchi di scuola.

La Condotta … 15 ottobre, sabato

Stefano Manservisi

Dopo pranzo sistemiamo le nostre cose nelle camere e con Carlo tentiamo di risolvere i suoi problemi di connessione che lo hanno isolato dal mondo impedendogli di accedere a Internet. Alla fine riusciamo a risolvere in qualche modo (piuttosto empiricamente), mentre l’ineffabile Mario è già pronto sul Toyota per accompagnarci a vedere l’opera: la condotta forzata.

Scendiamo verso la diga e risaliamo fino alla passerella che la attraversa in tutta la lunghezza. Da qui si può avere una visione di insieme della di tutto il lavoro fatto: a valle dal vano che contiene la valvola a farfalla (in sostanza il “rubinetto” a monte della condotta) scende come un lungo serpentone, la condotta forzata che, adagiata sul ciglio destro (scendendo) della strada di servizio percorre i lieve discesa i primi 900 m di percorso fino ad immettersi nel tratto in caduta quasi verticale fino alla centrale elettrica. A monte si può (per ora) solo immaginare l’invaso che nascerà una volta che, chiusi gli scarichi di fondo della diga, l’acqua avrà allagato l’ansa del Lukosi fino a che il livello non avrà raggiunto la soglia tracimante dello sbarramento che permetterà, una volta riempito il bacino di mantenere invariato il percorso e la portata del Lukosi mantenendo inalterato il suggestivo aspetto delle cascate del Lukosi e delle successive placide anse a valle dello sbarramento. Devo dire che vedere dall’alto quell’enorme serpentone metallico dà grande soddisfazione e suscita una fortissima emozione ed ammirazione per coloro (provenienti dall’Italia o da queste montagne) che l’hanno pensata e realizzata. Ovviamente il pensiero corre anche alla visionaria lungimiranza del Prof. Monari che in un periodo nel qual non era certamente immaginabile l’attuale sviluppo della questione energetica sia locale che mondiale, seppe anticipare a dispetto di tanti pragmatismi limitati l’attuale possibilità di realizzare una opera che può realmente incidere sullo sviluppo locale di queste popolose montagne e che ora può avere anche reali opportunità di auto sostenersi economicamente allontanando lo spettro di avere realizzato una cattedrale nel deserto o comunque uno strumento che una volta lasciato ai suoi legittimi destinatari venga poi abbandonato per mancanza di risorse. Percorriamo quindi tutta la strada di servizio fino all’imponente giunto a “T” da cui parte il salto della condotta verso le turbine in basso e verso il pozzo piezometrico in altro e che si perde sopra la scarpata e si inoltra nella boscaglia sovrastante.

Rientriamo e telefoniamo subito agli artefici di questo miracolo: Marco, Mario, Giuseppe Annamaria e i saldatori che hanno veramente messo a segno un grande colpo per il nostro spirito rinfrancato nel vedere pressoché realizzata una delle parti più difficili ed incognite del nostro progetto.

Certo ci sono ancora molte cose da fare e non meno impegnative come la parte inferiore del salto verso la centrale e la realizzazione del basamento delle turbine e della centrale stessa e degli scarichi che ricondurranno al tranquillo corso del Lukosi le acque che hanno fatto girare le turbine per produrre energia elettrica per questi villaggi.

Cena con pastina nel brodo di verdura e qualche scatoletta. Poi ci dedichiamo ciascuno al proprio diario o al riordino delle proprie cose. Domattina colazione alle 8 e visita al cantiere inferiore.

Casa Monari … 15 ottobre

Stefano Manservisi

Incontriamo P. Wissa che stava uscendo piuttosto stupito di vederci li alle 9 del mattino quando lui pensava che dovessimo essere ancor a Morogoro.

L’accoglienza qui è sempre fraterna e sincera, è bello incontrare gli amici da queste parti, l’entusiasmo è sempre contagioso.

Scambiamo due chiacchiere di benvenuto e di veloce aggiornamento sull’incontro di Mercoledì con mons. Tarcisius e su quello che dovrà seguire martedì prossimo. Prima di salutarci proponiamo di spendere la mezza giornata recuperata in una escursione al parco del Ruaha nella giornata di lunedì. Ci aggiorneremo domani pomeriggio una volta che sia arrivato a Iringa anche P. Luciano.

Prima di salire a Maguta passiamo per il mercato di Iringa a recuperare Mario che sta facendo un poco di spesa per il breve soggiorno a Casa Monari a Maguta.

Lasciamo Iringa e iniziamo a salire sulle nostre montagne passando dall’abitato di Ipoigoro, poi Kilolo (sede della provincia) per poi passare da Kidabaga dove arriviamo nel pieno del variopinto mercato settimanale, pieno di gente e colori. Infine, dopo avere “scollinato” un paio di volte , arriviamo a Madege il capoluogo all’interno del cui territorio si estende il nostro impianto idroelettrico sul fiume Lukosi in località Manguta.

Arriviamo a Casa Monari giusto in tempo per il pranzo.

Come sempre arrivare qui è un po come arrivare a casa e come sempre, l’accoglienza delle ragazze Innocenthia e Tafrigia, dei meccanici, dei capi squadra e di William il capocantiere è degna di fratelli rientrati dopo un lungo viaggio.

Il tempo di sistemare i bagagli nelle camere che è già ora di pranzo. Taffy e Innocenthia hanno preparato degli ottimi maccheroni con un ottimo sugo all’amatriciana.

Sua maestà il Baobab

Carlo Lesi

Nella lunga e faticosa galoppata odierna il paesaggio più affascinante è quello che inizia dopo Mikuni quando si inizia la salita verso l’altopiano che porta ad Iringa. Salendo ci si accorge di essere circondati da montagne maestose che rimangono sullo sfondo. La natura si fa selvaggia tanto che non si osservano insediamenti umani. E’ il regno incontrastato del baobab che accompagna il fiume Piccolo Ruah, che ai piedi della vallata riceve come affluente il Lukosi il fiume della diga di Maguta. Il baobab lo si osserva anche oltre la vallata. Ha un nome simpatico, giocato sulla stessa consonante ripetuta tre volte e tre vocali. Potrebbe essere il nome di una pizza, di un gelato o di un frappé: pizza al baobab, gelato al baobab o se preferite frappè al baobab. E’ un nome dal sapore esotico. Il fusto in genere è grosso e largo per poi sfrangiarsi in numerosi rami bitorzoluti che si assottigliano un po’ alla volta per finire nel nulla. Scarse le foglie per evidenziare l’essenzialità e la nodosità del ramo. La dolce luce del tramonto stasera ne illuminava alcune parte conferendo loro un aspetto lattiginoso. L’ho sempre osservato come l’espressione della vita: nasce con molte speranze che vanno riducendosi con gli anni. Bitorzoli espressione delle difficoltà esistenziali, nodi quali immagini delle scelte da compiere. Lo si potrebbe definire l’albero della vita, vita che nelle zone del baobab deve essere grama: ho visto donne zappare e bambini governare lo scarso bestiame di cui è dotata una famiglia. Ho visto donne magre camminare ai bordi della strada con un cesto sul capo colmo di frutta ed il bambino fasciato sulla schiena. Ho osservato anche qualche uomo lavorare nei campi ma più spesso attorno ad un biliardo con la stecca in mano per colpire le boccette. Non una gran bella figura! Ha ragione chi ha affermato che l’ Africa si salverà grazie alle donne.

Black is Black … 14 ottobre

Stefano Manservisi

Alle 8 il Kurasini è già tutto in piedi, congressisti compresi, carichiamo le macchine e decidiamo di valutare se proseguire o meno una volta arrivati a Morogoro.

Dar è semi deserta per la giornata festiva, ma tutto il traffico si è spostato fuori, dove la gente sembra che abbia approfittato della festività per fare qualsiasi attività, lasciare Dar è stato molto più difficoltoso che attraversarla, comunque una volta lascito l’ultimo villaggio della fascia extraurbana di Dar si riprend a viaggiare serenamente.

Persorriamo la Morogoro road sotto un cielo insolitamente nuvoloso, avendo lasciato il traffico alle nostre spalle il segno diritto della strada si prolunga davanti a noi salendo e scendendo le dolci colline di questa infinita pianura. Immersi in questo paesaggio e sotto le prime gocce di pioggia, Elia estrae una cassetta con “Rain and tears” cantata da Denis Russos e “Black is Black” difficilmente un colonna sonora poteva essere più azzeccata! Sembra di essere fuori dal tempo … alziamo il volume … fantastico!

Arriviamo al Glonency di Morogoro alle 13 e alle 14 abbiamo già mangiato l’ormai familiare riso in bianco con manzo o pollo in umido e verdure saltate sotto la grande tettoia in paglia e quindi decidiamo di proseguire fino oltre il parco del Mikumi e aggiornare la scelta del da farsi quando saremo al Tan Swiss lodge al villaggio di Mikumi (www.tan-swiss.com).

Ci arriviamo alle 16 e decidiamo di percorrere anche i 166 km che ci separano da Iringa dopo avere prenotato le camere al Willolesi Hilltop Hotel (nome un purtroppo altisonante per la realtà del posto ma certamente dignitoso, abbastanza pulito e comunque in una bella posizione che domina la città).

Percorriamo la bellissima valle dei Baobab costeggiando un tratto del fiume Ruaha Kidogo (Ruaha piccolo) passando in mezzo a imponenti baobab che nella loro imponente e nodosa presenza sembrano essere qui dall’origine dell’Africa … quasi ne fossero gli spiriti protettori, la luce calda del tardo pomeriggio aumenta la suggestione, maciniamo altri chilometri e superato il ponte alla confluenza del Ruaha Kidogo con il nostro Lukosi affrontiamo le prime rampe della salita di Kitonga che ci porterà in cima all’altopiano di Iringa. Qui incontriamo la solita teoria di enormi lumaconi stracarichi che arrancano in salita o che scendono altrettanto lentamente ben sapendo che sovraccarichi e malandati come sono questi TIR non potrebbero mai riuscire a fermarsi indenni se dovessero prendere anche solo un po’ di velocità su questo ratto di strada.

Attraversiamo gli ultimi villaggi prima di Iringa ormai al buio.

Bisogna dire che qui viaggiare di sera al buio e affare piuttosto delicato in quanto non è come da noi dove viaggiare al buio significa quasi certamente essere in una zona pressoché disabitata, mentre se si attraversano centri abitati quasi certamente c’è la illuminazione stradale, qui nel buio quasi totale, appena rischiarato dal chiarore lunare, da qualche sporadica lampadina degli innumerevoli negozietti che fiancheggiano la strada e dei fari delle macchine, c’è un mondo brulicante di gente, bambini, commercianti, biciclette, animali e di mille altre cose che potenzialmente ti potrebbero tagliare la strada all’improvviso.

Arriviamo alla reception alla 8:10 dove Mario riceve la solita calorosa accoglienza. L’aria è cambiata, qui è fresco, quasi freddino. Scarichiamo i Toyota e ci ritroviamo per mangiare una zuppa di verdure calda prima di andare a dormire, comunque sia anche se ormai asfaltata di nuovo quasi tutta , 600 km di strada sono piuttosto impegnativi.

Domattina colazione alle 7:30 poi mentre Mario va a fare la spesa al mercato di Iringa, noi possiamo andare a cercare P. Wissa alla casa vescovile.